Un secolo di femminicidi eccellenti: il Cinquecento

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Chiangi Palermu, chiangi Siracusa:
a Carini c’è lu luttu in ogni casa.
Attornu a lu Casteddu di Carini,
ci passa e spassa un beddu Cavaleri.
Lu Vernagallu è di sangu gintili
ca di la giuvintù l’onuri teni.

Amuri chi mi teni e do quanni,
unni mi porti – lu chiamo – amuri unni?

Viu viniri la cavalleria.
Chistu è me patri chi vini pi mia,
tutto vestuto alla cavallerizza.
Chistu è me patri chi mi veni ammazza’.
Signuri patri chi venisti a fari?
Signora figghia, vi vegnu ammazzari.

Lu primu colpu la donna cadiu,
l’appressu colpu la donna muriu.
Un corpu ‘nto cori, un corpu ntra li rini,
povira Barunissa di Carini.

Queste sono le parole della celebre ballata popolare con cui Luigi Proietti, nel 1975, introduceva le puntate dello sceneggiato televisivo “L’amaro caso della Baronessa di Carini”, per la regia di Daniele D’Anza, interpretato da Janet Agren, Ugo Pagliai e Adolfo Celi. Forse qualcuno tra i meno giovani lo ricorda. Si trattò di un femminicidio famoso, quello di Laura Lanza, baronessa di Carini, rimasto nella tradizione popolare e nella leggenda e di cui si è tutt’altro che persa la memoria. Ma fu solo uno dei tanti. Il XVI secolo, in cui l’Italia vide la fine delle lotte tra città e staterelli e alla fine una pace, pur in larga parte sotto il tallone spagnolo, fu realmente il secolo dei femminicidi eccellenti, in cui baronesse, duchesse e nobildonne in genere si spensero per mano dei propri coniugi o dei propri famigliari, in nome di quell’onore del quale resterà traccia fin negli ordinamenti giudiziari e che scomparirà definitivamente dal Codice Penale italiano solo nel troppo recente 1981.

Qualche anno fa due storici francesi molto attivi in storia italiana, Élizabeth Crouzet-Pavan e Jean-Claude Maire Vigueur, hanno pubblicato un interessante saggio, “Decapitate. Tre donne nell’Italia del Rinascimento”, Torino, Einaudi, 2019, dove affrontano tre casi famosi di nobildonne tra il 1391 e il 1425, Agnese Visconti, Beatrice di Tenda e Parisina Malatesta, fatte giustiziare dai rispettivi mariti, Francesco Gonzaga signore di Mantova, Filippo Maria Visconti duca di Milano e Niccolò III d’Este signore di Ferrara, con l’accusa di adulterio. Ma se questa era l’accusa ufficiale la rigorosa indagine investigativa degli autori rende chiaro come i motivi reali dell’avere punito un presunto crimine come l’adulterio con la morte fossero da ricercare più nella ragion di stato, come per esempio la necessità di concludere nuovi matrimoni senza passare per l’annullamento, procedura sempre soggetta alle autorizzazioni ecclesiastiche.

Tutto ciò cambia nel ‘500, quando nei fatti i margini di autonomia politica dei pochi principi italiani rimasti restano compressi dal predominio spagnolo. Il femminicidio, senza ombra di dubbio, diventa un modo di difendere l’onore, nella maggioranza dei casi, o una via spiccia per il marito per liberarsi di una moglie ingombrante una volta sbocciata la passione per un’altra donna. Nei casi che esamineremo in questo breve articolo la difesa dell’onore la farà in genere da padrone anche se non sempre si tratterà di onore infangato da una relazione adulterina. E, con una sorte di nemesi storica, sarà l’ultimo capriccioso caso di, questa volta fallito, femminicidio nel 1611 a colpire come un boomerang un marito troppo privo di scrupoli.

1. 1504 – Girolama Farnese, contessa di Stabia (1464/68-1504)

Sorella maggiore di quell’Alessandro Farnese che sarebbe diventato papa Paolo III era figlia di Pierluigi Farnese “il Vecchio” e di Giovannella Caetani di Sermoneta: tanto da parte di padre quanto da parte di madre nelle sue vene scorreva quindi il sangue di due fra le famiglie feudali più importanti dello Stato della Chiesa. Sposò in prime nozze nel 1483 Puccio Pucci, celebre giureconsulto e uomo politico fiorentino, fedelissimo di Lorenzo il Magnifico e sovente suo ambasciatore presso la corte papale. Fu un matrimonio felice che però non fu allietato da prole e che ebbe termine il 31 agosto 1494 quando il marito morì improvvisamente a Roma, dopo aver contratto la peste. Girolama, in condizioni che non ci sono note, si risposò il 15 febbraio 1495 con un nobile romano, condottiero di un certo valore, Giuliano dell’Anguillara, conte di Stabia (odierna Faleria in provincia di Viterbo), anch’egli vedovo, e andò con lui a vivere nel castello degli Anguillara di Stabia. A differenza del primo pare che il secondo matrimonio non sia stato felice, benchè sia stato allietato dalla nascita di una bambina, Isabella. Girolama incontrò inoltre la profonda ostilità del figlio di primo letto del marito, Giovan Battista dell’Anguillara, che alla fine, accusandola di essere un’adultera e di attentare alla vita del marito, insieme a 12 sicari la uccise nel castello di Stabia la notte del 1º novembre 1504. La faccenda resta peraltro oscura poichè gli assassini furono presi e interrogati dal famoso Renzo di Ceri (Lorenzo dell’Anguillara) che al momento dell’omicidio si trovava nella vicina Magliano a colloquio con il marito di Girolama, ma in seguito a tale interrogatorio furono rilasciati, tanto da far supporre una certa veridicità nelle accuse.

2. 1510 – Giovanna d’Aragona, duchessa di Amalfi (1477-1510)

Nella Napoli che aveva da poco inaugurato il lungo periodo di dominio spagnolo, Giovanna d’Aragona, discendente della dinastia aragonese di Napoli, rimasta vedova nel 1497 del marito Alfonso Todeschini-Piccolomini, 2º duca di Amalfi, mentre attende alla crescita del figlio, il 3º duca, commette l’errore di legarsi al proprio maggiordomo, Antonio de Bologna. Arriva a farci tre figli e poi addirittura a sposarlo segretamente. Ma la cosa è inaccettabile per i suoi fratelli, Carlo, marchese di Gerace e soprattutto il cardinale Luigi: un membro della Casa d’Aragona non può abbassarsi a sposare un parvenu. L’onta va lavata con il sangue. Giovanna e Antonio avvertono il pericolo e lasciano Napoli. Ma i sicari dei fratelli li raggiungono. Giovanna è catturata con due figli e riportata a Napoli, quindi rinchiusa nella torre dello Ziro in Amalfi, dove tutti vengono uccisi. Il Bologna riesce a fuggire a Milano ma anche qui viene raggiunto dai sicari e ucciso, forse con l’altro figlio, in un agguato nel 1511. Matteo Bandello raccontò la triste storia nella sua Novella XXVI, John Webster e Lope de Vega trassero dalla vicenda due famose tragedie.

3. 1546 – Isabella di Morra (1520-1546)

Figlia di Giovanni Michele di Morra, barone di Favale (l’odierna Valsinni in Basilicata) fu tenuta reclusa nel castello paterno dai fratelli che probabilmente desideravano evitare un matrimonio per la sorella con conseguente dote, che avrebbe ridotto il patrimonio famigliare già intaccato per motivi politici, in quanto il padre era emigrato in Francia e il feudo era stato assoggettato ad una ammenda. Isabella si dedica alla poesia tanto da lasciarci delle opere di pregio significative nell’ambito della letteratura cinquecentesca. Nel 1543 riesce a emergere dalla reclusione di fatto venendo chiamata come dama di compagnia dalla principessa di Bisignano, Felicia Sanseverino. È probabilmente in tale occasione che intavola una relazione con Diego Sandoval de Castro, di origine spagnola, barone della vicina Bollita (l’odierna Nuova Siri) e castellano di Cosenza. La relazione è sicuramente epistolare; se vi fosse stato qualcosa di più, e se i due avessero avuto modo di incontrarsi fisicamente, resta a tutt’oggi un mistero. Sia quel che sia della corrispondenza tra i due viene intercettata e i tre fratelli Decio, Cesare e Fabio, supponendo un rapporto extra-coniugale, decidono di ristabilire l’onore offeso della famiglia. Isabella finisce uccisa dai fratelli a pugnalate mentre l’anno successivo dei colpi d’archibugio spengono la vita del presunto amante. In questo caso la giustizia si mosse, forse non tanto per Isabella quanto per il Castro. I tre fratelli furono costretti e rifugiarsi in Francia e sembra non abbiano più rivisto Favale.

4. 1559 – Violante Diaz Garlon, duchessa di Paliano

Violante Diaz Garlon, nobildonna napoletana, era figlia di Antonio Diaz Garlon, 3º conte di Alife e di Cornelia Piccolomini; sposò Giovanni Carafa, nipote di papa Paolo IV e creato da questi 1º duca di Paliano. Stanca delle continue infedeltà del marito intrecciò una relazione con Marcello Capece, un nobiluomo di corte, ma la relazione fu in breve scoperta per la delazione di una dama di compagnia della duchessa, Diana Brancaccio. Giovanni Carafa fece arrestare il Capece e quindi lo uccise pugnalandolo a morte nel luglio 1559; nella stessa occasione il duca sgozzò Diana Brancaccio. Le ragioni d’onore imponevano peraltro una ritorsione pure contro Violante che il 29 agosto 1559 fu strangolata nel castello dei Carafa a Gallese dal proprio fratello Ferrante Diaz Garlon, 4º conte di Alife, alla presenza del proprio zio Leonardo di Cardine. Eletto al pontificato Pio IV si scatenarono le vendette contro i nipoti del papa precedente che si erano distinti per prepotenze, venalità e ruberie varie e l’omicidio di Violante finì ad arricchire i capi d’accusa. Giovanni Carafa fu arrestato con il fratello, cardinale Carlo Carafa, e con i due assassini Ferrante e Leonardo. Processati furono riconosciuti colpevoli e mentre a Carlo, in quanto cardinale, fu concesso lo strangolamento, Giovanni, Ferrante e Leonardo vennero decapitati nella prigione di Tor di Nona il 5 marzo 1561

5. 1559 – Diana Folch de Cardona, duchessa di Sabbioneta (1531-1559)

È piaciuto a Dio di chiamare a sé mia moglie per apoplessia, senza che potesse esprimere parola”. Così il famoso Vespasiano Gonzaga, uno dei grandi mecenati del Cinquecento, il creatore della “piccola Atene” nelle nebbie, come fu definita Sabbioneta, scriveva alla zia, la bellissima e giustamente famosa Giulia Gonzaga. Ma non era vero niente. Diana era stata vittima di un femminicidio, e di uno dei più atroci. Il matrimonio dei due, Vespasiano e Diana, era stato matrimonio d’amore, celebrato segretamente in Piacenza nell’aprile 1550, e il marito per ufficializzarlo aveva dovuto cercare l’approvazione nientemeno che dell’imperatore Carlo V. Ma il matrimonio deragliò. Vespasiano, fedele seguace dell’imperatore, era spesso assente, e durante una delle assenze Diana si innamorò di un giovane segretario della piccola corte di Sabbioneta, tale Giovanni Annibale Ranieri, iniziando con lui una relazione. La tresca divenne in breve oggetto di voci che arrivarono alle orecchie del marito e che immediatamente prese le opportune misure per difendere il proprio onore. Il Ranieri fu ucciso da un sicario e il cadavere fu posto in una stanza del palazzo ducale. Vespasiano attirò nella stanza la moglie e qui la rinchiuse assieme al cadavere dell’amante che ormai minacciava di decomporsi. Sordo alle preghiere e alle implorazioni della donna le allungò una fiala di veleno con la quale uccidersi: dopo tre giorni la poveretta cedette e si decise al passo estremo. I resti mortali di Diana non furono mai trovati.

6. 1563 – Laura Lanza, baronessa di Carini (1529-1563)

La vittima del femminicidio più famoso del secolo era figlia di un uomo duro e spregiudicato, di recente nobiltà, Cesare Lanza, barone di Trabia nel regno di Sicilia. Il padre la fece sposare a 14 anni, nel 1543, al sedicenne Vincenzo La Grua Talamanca, di famiglia nobile di origine catalana, erede del feudo di Carini presso Palermo. Laura visse con il marito, descritto come personaggio dal carattere debole e poco determinato, nel castello di Carini. Il matrimonio fu allietato da una numerosa prole, ben otto figli. Ma anche qui il matrimonio deragliò. Laura intrecciò una relazione con un giovane cugino del marito, di rango sociale inferiore, a nome Ludovico Vernagallo, che imprudentemente intratteneva nello stesso castello. La cosa venne all’orecchio non solo del marito ma, disgraziatamente per Laura, del duro e iracondo padre. Questi la mattina del 4 dicembre 1563, con l’accordo del marito, da Palermo si precipitò a Carini con alcuni bravi e sorprese i due amanti, uccidendoli entrambi. I due corpi furono quindi ricomposti e esposti nella chiesa madre di Carini in modo che la popolazione verificasse come l’onore dei Lanza e dei La Grua Talamanca fosse stato “lavato”. Il caso fece enorme rumore ma Cesare Lanza fu assolto secondo la legge vigente e ricompensato dal re l’anno successivo con la nomina a conte di Mussomeli

7. 1572 – Lucrezia Caracciolo

Le donne furono vittime dei mariti, dei genitori e dei fratelli. Ma in questo museo degli orrori non potevano mancare i figli. Su Lucrezia Caracciolo, nobildonna napoletana, moglie di Scipione Tomacelli, la documentazione non è abbondante. Si sa che era donna di facili costumi, e che pare ne abbia fatte di cotte e di crude. Di ristabilire l’onore della famiglia se ne incaricò il figlio, Giovan Battista Tomacelli che, lui presente, la fece uccidere da un tale Giovanni Renda nel 1572

8. 1575 – Eleonora degli Atti, contessa di Pitigliano

Con la contessa di Pitigliano abbiamo un femminicidio i cui motivi sono tuttora ignoti. Eleonora apparteneva a una importante famiglia di Todi e aveva sposato un uomo estremamente violento, Orso II Orsini, conte di Pitigliano. Costui si era già distinto nel 1573 rendendosi responsabile dell’uccisione di un suo vicino, il duca di Latera Galeazzo II Farnese. In tale occasione Orso accampò come motivazione dell’omicidio la gelosia per il rapporto intrattenuto dal Farnese con la propria moglie. La cosa appare peraltro dubbia poiché Eleonora sopravvisse per ben due anni alla morte di Galeazzo. Secondo la narrazione tradizionale i rapporti con il marito dovevano essere abbastanza cordiali quando nell’ottobre 1575, trovandosi Eleonora nel castello di famiglia di Sismano, fu invitata da Orso a raggiungerlo a Pitigliano. Ma a Pitigliano la contessa non arrivò mai. Il marito la incontrò all’ingresso della città, presso il ponte detto dello Strozzone, e qui la uccise a pugnalate, gettandone il corpo nel sottostante torrente Prochio. Orso tirò in causa l’onore per giustificare l’assassinio della moglie ma non fu creduto e la popolazione di Pitigliano si sollevò cacciandolo dalla città. Quest’uomo violento e spregiudicato trovò a sua volta una morte violenta in Firenze, ove si era rifugiato, nel marzo 1576.

9. 1576 – Leonora Alvarez de Toledo (1553-1576)

10. 1576 – Isabella de’ Medici, duchessa di Bracciano (1542-1576)

Erano cugine, furono vicine nella vita, e furono vicine nella morte, la seconda uccisa giusto sei giorni dopo la prima. Leonora apparteneva alla più alta nobiltà di Spagna, nipote della duchessa Eleonora di Toledo, moglie del duca di Firenze Cosimo I de’ Medici che nel 1569 sarebbe diventato il primo granduca di Toscana. Fu cresciuta dalla zia alla corte di Firenze e sposata nell’aprile 1571 a Pietro de’ Medici, figlio di Cosimo ed Eleonora e suo coetaneo. Isabella, di nove anni più anziana di Leonora, fu sposata nel 1558 a Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, membro di uno dei clan nobiliari più importanti d’Italia. Isabella visse alla corte di Firenze e qui fra l’altro si occupò dell’educazione di Leonora dopo la morte della zia di questa, madre di Isabella, nel 1562.

I due matrimoni non furono felici. Paolo Giordano Orsini era spesso lontano e Isabella pare abbia iniziato una relazione con il cugino di Paolo, Troilo Orsini, incaricato dal marito di sorvegliarla. Leonora fu nei fatti rifiutata dal marito che, pur essendo già padre di due figli illegittimi, rifiutò per più di un anno di consumare il matrimonio. Le due cugine vissero vicine e probabilmente condivisero i propri segreti. Ma mentre Isabella si dimostrò guardinga non così fu per Leonora che, sebbene invitata ad essere prudente, trascurata dal marito si diede a una vita licenziosa. A questo punto l’onore, dei Medici e degli Orsini, domandava soddisfazione. Leonora fu strangolata dal marito nella villa medicea di Cafaggiolo il 10 luglio 1576, Isabella sempre dal marito nella villa di Cerreto Guidi pochi giorni dopo, il 16 luglio. Il granduca di Toscana Francesco I, fratello di Isabella, aveva apparentemente approvato entrambi gli omicidi e i due rei andarono impuniti.(1)

11. 1577 – Adriana Dario

Appartenente al ceto veneziano dei cittadini originari sposò il nobiluomo Alvise Bon (1547-1603), primogenito del procuratore di San Marco Alessandro Bon e di Cecilia Mocenigo. I rapporti con il marito dovettero essere pessimi poiché Adriana fu oggetto di svariati tentativi alla propria vita orchestrati da questi. Rivoltasi alla giustizia veneta la donna vide il marito confinato a Capodistria per venticinque anni. Ma grazie ai buoni uffici del padre Alvise riuscì a tornare a Venezia e il 26 febbraio 1577 Adriana Dario fu uccisa con tredici pugnalate nella propria casa da un sicario, Zuan Battista Rossetto, su incarico del marito. Delitto d’onore ? Non ci è dato saperlo, perchè il Bon non si presentò al processo venendo bandito dallo stato dal Consiglio dei Dieci il 9 marzo 1579. Tre anni dopo purtroppo ritornò comprandosi la libertà per fare danni ancora più seri, come vedremo più avanti.

12. 1585 -Vittoria Accoramboni, duchessa di Bracciano (1557-1585)

Nella storia di Vittoria Accoramboni troviamo ancora Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano, marito e assassino di Isabella de’ Medici. Vittoria apparteneva a una nobile famiglia di Gubbio ma risiedeva a Roma ove sposò nel 1573 Francesco Peretti, nipote del cardinale Felice Peretti, futuro papa Sisto V. In breve Vittoria divenne l’amante di Paolo Giordano Orsini ma non sappiamo se la relazione tra i due sia potuta essere alla radice dell’uxoricidio compiuto da Paolo Giordano nella villa di Cerreto Guidi il 16 luglio 1576. In ogni caso la relazione proseguì strettamente e portò, il 15 aprile 1581, all’assassinio, da parte di sicari dell’Orsini, del marito di Vittoria. I due amanti si sposarono quindi in segreto ma la Curia dichiarò nullo il matrimonio. Dopo varie vicende quando il cardinale Peretti salì al soglio di Pietro nell’aprile 1585 Paolo Giordano e Vittoria lasciarono Roma, rifugiandosi in territorio veneto, a Salò sul lago di Garda, ove Paolo Giordano venne a morte per cause naturali il 13 novembre dello stesso anno. Vittoria fu lasciata erede del patrimonio di Paolo Giordano all’infuori del ducato, andato al figlio di primo letto di questi Virginio Orsini. Ma non potè godere a lungo dell’eredità. Risiedeva in Padova con il fratello Flaminio quando il 22 dicembre 1585 entrambi furono trucidati da dei sicari guidati da Ludovico Orsini di Monterotondo, uomo di fiducia di Virginio. L’assassino fu catturato e giustiziato dalle autorità veneziane insieme ai suoi bravi. Forse in questo caso più che l’onore la responsabilità del femminicidio è da ricercarsi nel vile denaro.

13. 1586 – Paolina Molin

Le brutte (o buone, secondo qualche insano punto di vista) abitudini sono dure a morire. Alvise Bon, questa volta certamente per ragioni d’onore, fu recidivo. Scoperta una tresca della seconda moglie, Paolina Molin, con il nobile Andrea Trevisan, Alvise si recò con la moglie presso la propria villa di Gorgo, nell’odierno comune di Cartura, invitando il Trevisan a trascorrere qualche giorno con loro. Preparò minuziosamente il delitto, allestendo nella villa una camera apposita lontana dalla camera padronale. Nottetempo, il 18 agosto 1586, il Bon uccise il Trevisan con quindici pugnalate, poi a seguire si occupò della moglie con trenta. Inquisito dal Consiglio dei Dieci su denuncia della famiglia Trevisan il Bon si difese accampando le ragioni di aver agito con impulsività per vendicare l’onore offeso ma fu giudicato colpevole in quanto nelle circostanze del delitto fu ravvisata la premeditazione. Alvise Bon fu condannato al carcere perpetuo ma nel 1596 riuscì a evadere e in seguito a ottenere il perdono una volta dimostrato di essersi accordato con i Trevisan. Morì nel 1603 in seguito al crollo di un balcone di casa Trevisan alla Giudecca.

14. 1590 – Maria d’Avalos (1562-1590)

È questo il caso più eclatante di delitto d’onore, rimasto famoso nella tradizione napoletana. Maria d’Avalos, di nobile famiglia di origini spagnole, sposò in terze nozze, il 28 aprile 1586, il proprio cugino Carlo Gesualdo, più giovane di lei di quattro anni, figlio ed erede di Fabrizio Gesualdo, 2º principe di Venosa. I due precedenti matrimoni di Maria, con Fabrizio Carafa e Alfonso Gioeni, erano stati nel primo caso allietati da prole ma si erano velocemente conclusi per la morte prematura dei due mariti. Il matrimonio con Carlo Gesualdo, personaggio assai attivo nel mondo culturale napoletano e celebre compositore, iniziò bene e vide la nascita di un figlio. Ma dopo un paio d’anni pare che i rapporti tra i due coniugi si siano parecchio deteriorati anche a causa di un atteggiamento violento del marito. Maria, famosa per la straordinaria bellezza, iniziò in breve una relazione con uno dei più brillanti nobili di Napoli, Fabrizio Carafa, 5º duca d’Andria, e la cosa in breve divenne di dominio pubblico. A questo punto gli ingredienti per il delitto riparatore c’erano tutti. Carlo Gesualdo finse di assentarsi per qualche giorno e Maria cadde nel tranello accogliendo il Carafa nella propria casa. Nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1590 Carlo tirò la rete e con alcuni bravi rientrò nel palazzo sorprendendo i due amanti in flagrante adulterio, quindi pienamente legittimato a ucciderli entrambi, cosa che fece secondo i resoconti con inaudita violenza. La flagranza era scriminante a quel punto e il vicerè, malgrado il delitto avesse fatto molto rumore, non potè far altro che lasciar perdere. Carlo Gesualdo visse altri ventitre anni, si risposò con Eleonora d’Este, e si guadagnò un posto duraturo nella storia della musica italiana.

15. 1611 – Silvia Visdomini, contessa di Fontanellato (1579-1652) e la nemesi storica del femminicidio cinquecentesco

Non sempre i femminicidi vanno a buon fine. Quello tentato ai danni di Silvia Visdomini causò danni a non finire e uno sconquasso tale da distruggere praticamente le grandi famiglie nobili del ducato di Parma e Piacenza.

Silvia Visdomini era figlia di un nobile reggiano, Ippolito Visdomini, conte di Sarzano, e della nobildonna Ginevra Scaiola, già dama di compagnia della duchessa Maria moglie di Alessandro Farnese. Nel 1598 sposò uno dei maggiori feudatari del ducato di Parma e Piacenza, Alfonso II Sanvitale, conte di Fontanellato, e in una dozzina d’anni partorì solo figlie femmine. Non apparteneva ad una famiglia di stinchi di santo poiché la sorella Ottavia fu condannata a morte in contumacia accusata di aver ucciso il marito. Nel 1610 il marito di Silvia si innamorò di una donna più giovane scacciando la moglie per poter vivere con essa; ma Silvia reagì costringendolo ad allontanare l’amante da Parma. Alfonso decise di risolvere la questione in modo radicale e la sera del 9 giugno 1611 mentre Silvia e la madre erano ospiti della famiglia Malaguzzi a San Maurizio di Reggio quattro sicari spararono alcuni colpi d’archibugio attraverso la finestra aperta sulla famiglia riunita. Silvia venne ferita ma si rimise mentre la madre morì il 30 giugno dopo lunga agonia. Il fratello di Silvia, Ranuccio Visdomini, denunciò l’accaduto alle autorità parmensi accusando il Sanvitale di essere il mandante dell’attentato. Arrestato il Sanvitale finì per confessare di essere il mandante del tentato uxoricidio ma dall’interrogatorio dei sicari emerse una vasta congiura della nobiltà parmense contro il duca Ranuccio I Farnese, quella che resterà nota come la “Congiura dei feudatari“. L’epilogo della vicenda si avrà il 19 maggio 1612 con la “Gran giustizia” quando praticamente tutti i grandi feudatari del ducato, Alfonso in primis, verranno decapitati a Parma in quanto implicati nella congiura. Silvia Visdomini si risposerà invece con il marchese ferrarese Alfonso Bevilacqua e morirà nel proprio letto nel 1652.

Quello che finisce qui è un elenco impressionante, viziato sicuramente da difetto, perché troppe altre donne, di minor nobili natali o appartenenti al popolo, trovarono la morte in quel secolo, e anche negli altri, in nome dell’onore. L’asimmetria del rapporto tra coniugi permase nell’ordinamento italiano sino al 1968, quando la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale del 1º e 2º comma dell’art.559 del Codice Penale, che puniva la moglie adultera e il correo con la reclusione sino a un anno. Nel 1981 si cancellarono le disposizioni del Codice Penale sul delitto d’onore ma i femminicidi per causa d’onore e non solo permangono frequenti anche al giorno d’oggi.

(1) Elisabetta Mori, archivista presso l’Archivio Storico Capitolino di Roma, sulla base di un’analisi approfondita della corrispondenza tra Isabella de’ Medici e il marito ha recentemente messo in dubbio in una serie di contributi la veridicità della fine violenta di Isabella. Il dibattito sul tema è tuttora aperto

Per approfondire:

Vanna Arrighi, FARNESE, Girolama, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol.45, 1995

Elio Clero Bertoldi, Eleonora, un femminicidio del Rinascimento in UmbriaLeft.it, 3 gennaio 2019

Fabio Boni, La vicenda della morte di Carlo e Giovanni Carafa in alcuni testi di fine Cinquecento e Seicento, in Romanica Silesiana, n.1, 2020

Raffaella Bonsignori, Vespasiano Gonzaga. Un uomo e la Morte in InLibertà.it, 2 maggio 2018

Vanni Bramanti, Breve vita di Leonora di Toledo (1555-1576), Firenze, 2007

Tito Manlio Cerioli, Le opere pie elemosiniere concentrate nell’Istituto Elemosinario (1815) e poi nella Congregazione di Carità di Ferrara: schedatura e cenni sui fondatori (secoli XVI-XIX) su “academia.edu“, s.d. (su Silvia Visdomini)

Annibale Cogliano, Carlo Gesualdo, omicida tra storia e mito, Napoli, 2006

Benedetto Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, Palermo, 1983

Michele La Tona, La vera storia della baronessa di Carini, Palermo, 1975

Elisabetta Mori, L’onore perduto di Isabella de’ Medici, Milano, 2011

Giovanni Orioli, ACCORAMBONI, Vittoria, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol.1, 1960

Claudio Povolo, La stanza di Andrea Trevisan. Amore, furore e inimicizie nella Venezia di fine Cinquecento, Sommacampagna (VR), 2018

Luca Sarzi Amadè, Il duca di Sabbioneta, Milano, 1990

Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, 1999

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