La peste del XIV secolo – Capitolo III

1. Fu proprio la peste a provocare la catastrofe demografica nel XIV secolo?

La comunità scientifica, a grande maggioranza, assegna alla Yersinia pestis la responsabilità per la catastrofe demografica occorsa nel Trecento. Tuttavia, sono state formulate teorie alternative, basate in particolare sui sintomi presentati dai soggetti dell’epoca, considerati incompatibili con la peste. Nell’ultimo ventennio del secolo scorso, lo zoologo Graham Twigg ha ipotizzato che le tante morti, nel XIV secolo, siano dipese da una forma di antrace. Altri studiosi, circa nello stesso periodo, hanno sostenuto che la patologia dell’epoca sia stata una simile all’Ebola. E nel corso degli anni non è mancato chi, pur ammettendo la presenza della peste, ha ritenuto che alla stessa si siano associate altre affezioni quali il vaiolo, il tifo o la tubercolosi. Orbene, prima di dare la parola alla scienza contemporanea, si vogliono riportare le testimonianze di due persone vissute durante la pandemia: Giovanni Boccaccio (1313-1375) e Guy de Chauliac (†1368). Già dalle loro frasi, si può intuire come negare totalmente la peste del Trecento appaia l’esercizio di chi ama godere di qualche istante di celebrità.

Giovanni Boccaccio. – Nel suo Decameron, così si esprime: «[…] già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza […] pervenne la mortifera pestilenza la quale […] alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata […] verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata […]. Nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia [inguine] o sotto le ditella [ascelle] certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli [i bubboni]. E dalle due parti del corpo predette, infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno».

Guy de Chauliac. – Nato poverissimo, era riuscito – grazie a circostanze che qui non rileva riportare – a diventare medico abile e famoso, al punto che papa Clemente VI, nato Pierre Roger (†1352), nel 1342, lo aveva assunto come archiatra. Nel 1348, la patologia raggiunge Avignone, ove lo stesso pontefice risiede. Questi, a fronte dello spaventoso numero dei decessi, autorizza, eccezionalmente, il sanitario a eseguire autopsie sui cadaveri. Dopo averle, appunto, portate a termine, egli così riferisce: «il grande bilancio delle vittime iniziò nel nostro caso [Avignone] nel mese di gennaio [1348]. L’elevata mortalità della malattia può manifestarsi in due modi: il primo si presenta con una febbre continua che si accompagna a emottisi [emissione di sangue, con la tosse, proveniente dalle vie respiratorie]. Il malato muore in tre giorni. È peste polmonare. La seconda si manifesta anche con una febbre alta e continua. Poi compaiono ematomi, ascessi nerastri e gonfiori linfonodali all’inguine e alle ascelle. La morte avviene in cinque giorni. È la peste bubbonica. Ci sono casi in cui i pazienti sopravvivono e riescono a superare questa forma patologica della peste. C’è grande contagiosità, soprattutto nei casi di emottisi, che non solo vivendo nella stessa casa, ma semplicemente guardando, una persona può contrarre [la malattia] dall’altra». In conseguenza, Guy de Chauliac – per la prima volta nella storia della medicina – distingue la forma bubbonica da quella polmonare, ed è probabile che abbia indicato possibilità di sopravvivenza, nel caso della prima, perché lui stesso, che l’aveva contratta, era riuscito a salvarsi. Tuttavia, anche di là di altre inesattezze, non riesce a comprendere la causa della malattia. Anzi, ritiene che l’aggressione delle vie respiratorie dipenda dalla corruzione dell’aria, giusta la prevalente opinione del tempo.

La scienza contemporanea. – Analisi recentemente effettuate su cadaveri certamente risalenti al XIV secolo – ritrovati sia in Europa sia in Asia – hanno inequivocabilmente dimostrato che la Yersinia pestis è stata l’agente eziologico della malattia che ha devastato all’epoca il mondo. Pertanto, le opinioni di chi invoca microrganismi completamente diversi sono destituite di ogni fondamento. Inoltre, nei vari siti di sepoltura, l’esame delle ossa e della polpa dentale non ha riscontrato la presenza di agenti patogeni epidemici che potessero sostenere l’ipotesi di chi ritiene che alla peste, sebbene presente, si sarebbero associate altre malattie. In conseguenza, la questione è chiusa: è stata la peste medesima, e soltanto essa, a far sì che la morte diventasse protagonista assoluta del Trecento.

2. Le modalità di diffusione della peste.

Questione di un certo rilievo è quella concernente le modalità di diffusione della peste nel mondo del XIV secolo.

La tesi prevalente. – Secondo l’opinione di gran lunga prevalente, sono stati i roditori, a bordo dei quali viaggiavano le pulci, a diffondere la patologia. In proposito, si è correttamente sostenuto che ratti e topi si nascondevano, a caccia di cibo, fra i bagagli delle carovane o nelle stive delle navi. Nessun dubbio, inoltre, che quei piccoli mammiferi si riproducono velocemente e che la loro pelliccia costituisce il microclima perfetto per le pulci, le quali si contagiano succhiando il sangue dei roditori stessi, ricco della Yersinia pestis. Lo stesso sangue, oltre che fonte dell’infezione, è anche terreno di coltura della medesima, nel senso che i bacilli si riproducono, appunto, nel liquido ematico. Pertanto, sotto il profilo storico, l’unico dilemma da risolvere sarebbe quello di stabilire il dove e il quando si è verificato il salto di specie, vale a dire quel processo naturale, noto anche come spillover, «per cui un patogeno degli animali evolve e diventa in grado di infettare, riprodursi e trasmettersi all’interno della specie umana». Una risposta certa, dopo settecento anni, non è possibile, anche se, in un prossimo capitolo, non si mancherà, quantomeno, di incentrare l’attenzione sul luogo di origine della Peste Nera. In ogni caso, utile rilevare come alcuni esperti sostengano che le pulci avrebbero scelto l’uomo come sostituto dei ratti e dei topi subito dopo una moria di questi, occorsa forse fra gli anni Venti e Trenta del Trecento e conseguente alla cosiddetta Piccola Era Glaciale, iniziata nei primi anni dello stesso secolo.

Un recente assunto. – Accanto alla tesi appena richiamata, che si ribadisce essere predominante, se n’è di recente formata un’altra che, per così dire, assolve i roditori dalle loro responsabilità, chiamando in causa le pulci e i pidocchi umani. Ricercatori delle università di Oslo e Ferrara hanno elaborato alcuni modelli nei quali è stata simulata la diffusione della peste in nove città europee, confrontando, fra l’altro, la trasmissione della patologia per opera dei ratti con quella propagata attraverso i parassiti che vivevano sugli esseri umani e sui loro abiti. I risultati degli studi sono stati pubblicati su importante rivista scientifica, e uno degli esperti, il professor Nils Stenseth, in seguito intervistato dalla BBC, ha sostenuto che in sette casi su nove, «il modello dei parassiti umani riflette meglio la maniera in cui la peste si è moltiplicata e ha fatto vittime». Ha aggiunto lo stesso accademico norvegese: «la conclusione è molto chiara. Sono stati i pidocchi umani. È improbabile che la peste si sarebbe diffusa così rapidamente se fosse stata trasmessa dai ratti».

Conclusioni. – La questione è dunque aperta, ancorché nelle proporzioni in precedenza richiamate, ma sia assolutamente chiaro – anche per quanto emerge dalle fonti del tempo – che la peste del XIV secolo, in numero di casi imprecisabile ma certamente molto alto, si è diffusa senza alcun bisogno delle pulci dei roditori o dei parassiti umani: la forma polmonare, infatti, si trasmetteva (come si trasmette tuttora) da uomo ad uomo.

3. Pandemia, endemia, epidemia, tasso di mortalità e tasso di letalità: definizioni.

La peste del Trecento va naturalmente considerata come una pandemia. Questo termine deriva dal greco: segnatamente, da πᾶν (pan), neutro dell’aggettivo πᾶς (pas), che significa «tutto», e da δῆμος (demos), che vuol dire «popolo». In conseguenza, pandemia equivale a patologia che coinvolge l’intera popolazione mondiale o gran parte di essa. Quella del XIV secolo è terminata nel 1353, ma in seguito si sarebbe ripresentata a ondate, flagellando l’Europa (e non solo) fino al XVIII. In tutti tali casi, sarebbero dunque occorse epidemie, che un’importante enciclopedia definisce, al singolare, come «manifestazione collettiva d’una malattia […] che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto». Altri termini che s’incontreranno nel seguito del presente lavoro sono endemia (oppure l’aggettivo che ne discende), e, in maniera diretta o indiretta, tasso di mortalità e tasso di letalità. Non tutti ne conoscono il corretto significato, e si ritiene quindi utile precisarlo. Endemia è altra parola che proviene dal greco, e in particolare da ἐν (en), che si traduce con «in», e ancora dal richiamato δῆμος (demos). Pertanto, essa indica la costante presenza, in una determinata zona, di una patologia. In conseguenza, l’attributo – endemico – riguarda le patologie infettive che siano presenti per diverso tempo in una certa zona del pianeta o presso una determinata popolazione dello stesso, senza la necessità di soggetti portatori che giungano dall’esterno. Ancora più precisamente, utilizzando le parole dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), una patologia si ritiene endemica quando «l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato ma uniformemente distribuito nel tempo». Ne discende che endemico non è equivalente di innocuo, come taluni erroneamente (e ingenuamente) ritengono. Una malattia può essere endemica e nel contempo mortale. Quanto ai richiamati tassi, sebbene mortalità e letalità siano sinonimi, si tratta di indici afferenti a due relazioni fra loro diverse. Il tasso di mortalità è il rapporto tra il numero dei decessi in un certo periodo e la quantità della popolazione media del periodo medesimo. Ergo, quando si sostiene che la Peste Nera ha ucciso 20/25 milioni di persone, in Europa, fra il 1347 e il 1353, su una popolazione media, nello stesso periodo, di 60/75 milioni, il tasso in parola è evidentemente 1/3 (un terzo). Il tasso di letalità, invece, quantifica quanti soggetti muoiano fra coloro che effettivamente contraggono la malattia. Riferendosi alla pandemia del Trecento, si tratta di un rapporto impossibile da calcolare, poiché mai sarà noto quante persone siano riuscite fortunosamente a salvarsi dopo essersi ammalate.

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