La peste del XIV secolo – Capitolo XIII

1. I consigli contro la peste del XIV secolo: a) durante la pandemia.

Nel Trecento, già durante la pestilenza, inizia a fiorire un nuovo genere letterario: quello dei consilia de peste, una sorta di manuali della prima ora, con cui i sanitari cercano di fornire la prova delle loro competenze professionali, da molti messe in dubbio. In linea di massima, tutti i consigli sono opuscoli contenenti indicazioni di carattere preventivo e terapico. All’attenzione dei lettori si riportano, in forma riassuntiva, quelli scritti da Gentile da Foligno (†1348) e da Tommaso del Garbo (†1370).

Il consiglio di Gentile da Foligno. – Nel suo Consilium contra pestilentiam, probabilmente il più antico mai redatto, Gentile da Foligno suggerisce di far levare alte le fiamme all’interno delle abitazioni, ma anche «irrobustimento de lo cuore e de li altri organi principali e ne lo stesso tempo lotta contro la putrescenza velenosa, impedendone lo sviluppo ne li soggetti malati e lo insorgere ne li soggetti sani». In conseguenza, gli infermi devono essere isolati e gli alimenti imbevuti nel vino. Fra questi ultimi, da preferire quelli acidi: «non vi è alcun dubbio che tutto ciò che è stato reso acido contrasta la putrefazione». In ogni caso, i cibi caldi devono essere aromatizzati con la canfora, e quelli freddi accompagnati dalla selaginella. Fra le terapie, proposti i salassi, i clisteri e la triaca.

Il consiglio di Tommaso del Garbo. – L’accademico, di origini fiorentine, scrive il Consiglio contro a pistolenza, che costituisce interessante documento di storia della medicina, poiché testimonia una delle maniere in cui è combattuto il morbo nel Trecento. In primo luogo, il sanitario suggerisce l’opportunità di fuggire dai luoghi raggiunti dalla peste, anche perché alcuni corpi – dei convalescenti. dei fanciulli, degli individui collerici, di coloro che conducono vita disordinata – sono particolarmente predisposti a subire la «corruzione». La patologia, infatti, è considerata «un alito velenoso» che, espulso dai malati, contagia i soggetti sani, colpendoli al cuore. I vari consigli sono connessi alla vita quotidiana: come lavare il proprio corpo e l’abitazione (con aceto), a che ora è appropriato uscire di casa, quando spalancare le finestre, quali «suffumicazioni» sono più utili, le ragioni per cui è necessario tenersi discosti dalle altre persone, come devono comportarsi coloro che, a causa della professione, sono costretti al contatto con i malati. Concreto, a tale proposito, l’avvertimento per i sacerdoti, deputati a raccogliere la confessione dei moribondi: tutti devono allontanarsi dalla camera in cui giace l’appestato, affinché questi non debba sussurrare, ma possa invece esprimersi a voce alta. In conseguenza, lo stesso religioso non è costretto ad avvicinarsi al pericoloso respiro del degente. Lo stesso religioso, per altro, ma anche il medico o il notaio, prima di entrare nella stanza in cui giace il malato, devono bere vino e mangiare confetti. Nella camera, poi, dovranno avere una spugna intrisa d’aceto da annusare spesso. Quanto agli alimenti, il Del Garbo suggerisce quelli asciutti – preferibilmente mescolati a essenze stimolanti quali la melissa e lo «zucchero di ottima qualità» – le uova e le verdure cotte, mentre ritiene pericolosi diversi frutti, i latticini, i legumi e le radici. Fra i vini, sui quali si trattiene, i più efficaci sono vernaccia e malvasia. Il sanitario si sofferma pure sulla maniera di dormire, sugli esercizi fisici e sui diletti della mente: «i pensieri sieno sopra cose dilettevoli e piacevoli». Opportuno indossare vestiti larghi, bere il giulebbe, tenere in mano un pomo di laudano, assumere quotidianamente la triaca, ma soprattutto prendere «le pillole groliose di Giovanni Damasceno», di cui riporta la ricetta. Una serie di suggerimenti che non avrebbero salvato il sanitario in parola, ucciso nel 1370 proprio dalla peste.

2. Segue: b) dopo la pandemia.

I libretti che compaiono dopo la Peste Nera, ancora nel XIV secolo, includono istruzioni varie, per l’eventualità – in effetti verificatasi – che il morbo si ripresenti. Se ne indicano tre, scritti, rispettivamente, da un anonimo padovano, da Giovanni Dondi dell’Orologio (†1388) e da Pietro Curialti, meglio conosciuto come Pietro da Tossignano (†1407).

Il consiglio dell’anonimo padovano. – In questo consilium, risalente al 1360 circa, l’autore rileva come la migliore misura preventiva contro la peste sia la fuga, soprattutto quando la calura, carica di miasmi, è forte, in primavera e poi in estate. Chi non può allontanarsi, affumichi regolarmente la sua casa e la zona a essa circostante, preoccupandosi anche di portare all’interno della stessa abitazione rose, viole e «tutto ciò che abbia un buon profumo». Sconsigliata l’attività fisica che fa aumentare la quantità di aria (miasmatica) inalata. Utili i massaggi leggeri, che stimolano la circolazione, e opportuno mantenersi allegri, ottimisti e sereni. Importante favorire l’evacuazione perché le feci, in caso di accumulo, cagionano putrefazione.

Giovanni Dondi dall’Orologio e il suo consiglio. – Nato a Chioggia intorno al 1330, nel 1354 inizia a insegnare nello Studium di Padova, ove l’anno dopo è certamente membro del Collegio dei dottori in arti e medicina. Fra il 1359 e il 1360, è docente anche di astrologia, per poi essere abilitato pure all’insegnamento della logica, nel 1361. Tuttavia, già dal 1348, il Dondi si è dedicato alla ricerca e alla progettazione, e verso il 1364 completa il suo capolavoro: l’Astrarium, un complesso orologio astronomico destinato a diventare una delle più importanti macchine di tutti i tempi. Fra il 1362 e il 1365, il veneto insegna nello Studio di Pavia, fondato dall’imperatore Carlo IV di Lussemburgo (1361-1378) il 13 aprile 1361. Nel 1366, rientra a Padova, ove è docente fino al 1379, di là di un breve periodo trascorso a Firenze. Intorno al 1370, diventa medico curante (aspetto che sarà meglio precisato in altro capitolo) e uno dei più cari amici di Francesco Petrarca (1304-1374), del quale ammira il pensiero filosofico e morale. In seguito, su richiesta di un imprecisato vescovo pavese – ad instantiam et requisitionem Episcopi Papiensis – scrive il suo consilium, nel quale, per prevenire la peste, si affida a regole di vita: «lavarsi ogni mattina con acqua freschissima; non uscir di casa prima del levar del sole, né dopo il tramonto quando l’aria sia torbida e nuvolosa; evitare soprattutto i venti del mezzogiorno; star la mattina intorno ad un fuoco di legne secche e fragranti, mescolandovi un po’ di canfora e d’incenso. Per il vitto condir tutto quanto si mangia coll’aceto; poche carni e fra queste solo quelle di vitello, di castrato, di capretto, di pollo, di fagiano. Non mangiar pesci, se non in caso arrostiti sulle brace […] vino allungato; bere acqua freschissima, orzate, limonate […]. Evitare i frutti dolci e tutte le ghiottonerie a base di mele. Sfuggir le donne e gli esercizi corporei violenti; non far bagni. Inoltre […] si tenga in mano una spugna imbevuta di aceto fortissimo, o di aceto e acqua rosata, mescolati con un po’ di canfora, e la si fiuti spesso: è molto efficace contro la pestilenza».

Il consiglio di Pietro da Tossignano. – Il sanitario, nel suo Consilium pro peste vitanda, redatto nel 1398, dopo aver descritto la «pestilentia» come «una certa mutatione facta nel aere», ma anche come putrefazione «simile alla putrefactio del acqua», suggerisce di purificare l’aria con fuochi di legna profumata, ma anche usando varie essenze, quale l’«aceto di vino odorifero». Consigliato l’uso di «un pomo di laudano», da annusare spesso. Seguono varie indicazioni sugli alimenti e le bevande, ricordando che è sempre appropriato «usare lo aceto […] di bon vino». Necessario evitare il sonno nelle ore diurne e i rapporti sessuali. Opportuno rifuggire dall’ira, dalla tristezza e dalla paura: al contrario, «ci dovemo allegrare e dar piacere co’ suoni, leggere hystorie e altre cose simili». Fra le cure, suggeriti i salassi, la triaca, il vino bollito nell’assenzio e altra miscela di vari ingredienti che l’autore sostiene di aver assunto «più volte» egli stesso.

3. I consigli contro la peste nel XV secolo: a) cenni.

Nell XV secolo, in corrispondenza di un ritorno della peste, si scrivono diversi consigli, sovente in volgare, mentre l’industria tipografica approfitta della domanda del momento, stampando almanacchi e trattati, ma anche reinserendo nel mercato opere redatte durante il Trecento. Ad esempio, intorno al 1475, a Padova, presso Lorenzo Canozio, è pubblicato il Consilium contra pestilentiam di Gentile da Foligno, in precedenza richiamato. Nello stesso periodo, esce a Napoli il Consiglio per preservar della peste del medico patavino Antonio Cermisone (†1441). Dello stesso autore, sono pubblicati a Roma, nel 1478, il Consiglio per preservar e sanare della peste e il Remedio per li sani ad preservare de la pestilentia. Nel medesimo anno, il sanitario bolognese Girolamo Manfredi (†1493) fa dare alle stampe il Trattato della pestilenza, che di là del titolo, è un’opera «breve e sentenziosa», in volgare. Tuttavia, è tradotta in latino, nel 1480, per soddisfare le esigenze di quanti di quanti disprezzano i «vulgares sermones qui ad indoctos pertinent». Ancora nel 1478 e sempre a Bologna, esce il Reggimento nel tempo della peste del medico di origini imolesi Baverio Maghinardo de Bonetti (†1480), in seguito ristampato a Brescia (1493), di nuovo a Bologna e a Perugia (1523), in quest’ultimo caso con il titolo Tractato mirabile contro de la pestilentia. L’opera include varie norme indirizzate alle persone che, per ragioni professionali o familiari, entrano necessariamente in contatto con i malati di peste.

L’opera di Johannes de Ketham. – Nel 1491, a Venezia, Giovanni (Zuan) e Gregorio De Gregori danno alle stampe la prima edizione del Fasciculus medicinae del sanitario tedesco Johannes de Ketham. Sotto il profilo estetico, è una delle opere più belle dell’intero Medioevo, contenendo alcune splendide illustrazioni che introducono i vari scritti in essa raccolti. Fra questi, il Consilium pro peste vitanda, di Pietro da Tossignano, al quale si è già accennato.

4. Il consiglio di Bonino Mombrizio.

Intorno al 1477, l’editore Antonio Zarotto pubblica, a Milano, il Testamento preservativo e curativo per defensione dell’umana generazione dal morbo pestilenziale, attribuito all’umanista e filologo meneghino Bonino Mombrizio (1424-1478/1482). Lo scritto non è molto originale, ricalcando quanto già sostenuto da vari autori del passato: nondimeno, appare interessante per l’umanità che traspare, ad esempio, nella rappresentazione del medico ideale oppure nelle prescrizioni per le persone non abbienti. Nella presentazione del libro – questa certamente vergata dal Mombrizio – sono spiegate le ragioni della redazione dello stesso. Vale a dire, la «compassione» e l’opportunità «di provvedere al bisognio et scampo del humana generatione per lo pericolo del morbo pestilentiale». Lo stile è semplice e chiaro, in modo che ciascuna persona «litterata e non, lo possa chiaramente intendere et usare». Il Testamento è poi articolato in quattro capitoli: il primo è riservato alle cause della peste; il secondo alle regole da seguire per mantenersi in salute; il terzo alle questioni mosse dai disputantes, considerate soltanto «beghe di litterati»; il quarto alla cura degli ammalati. Il morbo è definito, in ossequio alla tradizione, come «una mutazione facta nell’aere», e le ragioni che «corrompono e occidono l’aere» sono anzitutto le congiunzioni astrali negative e le eclissi di sole e luna, che determinano putrefazione dell’acqua. In secondo luogo, i cadaveri in decomposizione, gli alberi «de mala complexione» (fra cui noce, fico e sambuco) e gli animali «velenosi» (draghi, serpenti e tigri). Fra le cause «particulari» della propagazione della peste, l’autore segnala la disposizione del paziente, e dunque: la «forteza de l’agente»; la «picadeza», ossia la vicinanza con l’appestato che si realizza per contatto e tramite l’aria corrotta dai «fiati» dell’infermo stesso; la «dimoranza», vale a dire il soggiorno in luoghi infetti. Quanto alla profilassi, è suggerito respirare aria salutare e temperata, mangiare e bere con moderazione, rispettare un corretto equilibrio nei ritmi sia di lavoro e riposo, sia di sonno e veglia. Molto importanti gli stati dell’animo: se alcuni – rabbia, tristezza, terrore – indeboliscono il corpo, altri invece lo fortificano. In conseguenza, i suggerimenti sono la preghiera e la contemplazione, ma anche «stare con alegreza et consolatione, con canti e cansoni e solazo e lezere historie, fabule et novelle de consolatione e de letitia». Fra le letture indicate, la Bibbia, l’Iliade, le storie romane e il Decameron, ma anche l’Ars amandi di Ovidio. Nei luoghi non ancora raggiunti dalla peste, va comunque «schifata la conversatione de la gente», ed è fondamentale che i relativi «rectori» proibiscano l’ingresso, in essi, a chi proviene da zone già colpite dalla malattia. In tal modo, s’impedirà che un soggetto possa «toxegare assai altri». Se la peste arriva, la migliore misura preventiva, qualora possibile, è la fuga in luoghi salubri e remoti. In mancanza, le stanze delle abitazioni devono essere purificate con fumigazioni, i muri lavati con aceto o altre sostanze aromatiche. L’uno e le altre devono anche essere utilizzati per bagnare una spugna o un panno, da annusare con frequenza. Ai più poveri, il Mombrizio consiglia di usare un mazzetto di erbe profumate e bagni durante i quali il corpo va sfregato con l’aceto. Ancora durante la profilassi, indicate la triaca e altri composti. Fra le terapie, oltre i rimedi appena accennati, l’autore raccomanda la flebotomia, la liberazione del corpo dagli umori in eccesso e la chirurgia, «scientia longa e profunda», per l’asportazione del bubbone. Le ultime indicazioni concernono la scelta del sanitario, che deve essere abile sia nella teoria sia nella pratica della medicina, ma anche preparato in filosofia e astrologia. Fondamentale evitare il medico interessato soltanto al denaro, e quindi non caritatevole verso il prossimo, ricercando invece quello di «conscientia […] e di scientia perfecta […]». Difatti, se egli «non ha queste conditione tu potrai perire».

5. Il consiglio di Marsilio Ficino.

Nel 1481, è dato alle stampe, a Firenze, il Consiglio contro la pestilentia scritto due anni prima, in vernacolare toscano, da Marsilio Ficino (1433-1499), filosofo neoplatonico, umanista e astrologo. L’opera ottiene un successo straordinario. Già ampiamente diffusa in forma manoscritta, sarebbe stata ristampata sette volte durante il XVI secolo, epoca in cui è edito pure il consilium di Tommaso del Garbo (†1370), già richiamato nella prima parte del corrente capitolo.

L’autore definisce la pestilentia come «uno vapore velenoso concreato nell’aria», che «nascie et regna», soprattutto, «nelle arie grosse et paludose et nebulose et fetide», e che «spargesi da l’uno corpo all’altro» dopo essersi acceso «solo ne’ corpi che sono a questo molto disposti». Come misure preventive, Ficino suggerisce quindi di evitare l’«aria strecta, molto rinchiusa et humida», ma anche «da venti che vengono da stagni o paludi, da acque ove sia… lino in macero, e da… mali odori», fra cui quelli «de’ cavoli, de’ noci, ruchette et herbe puzolenti». In conseguenza, l’aria, all’interno delle abitazioni, deve essere «molto asciutta sempre, et di state, oltr’a questo fresca». Del resto, «el vento che fa l’aria fredda et secca et chiara è per sua natura salutifero… et è il principale medico contro a questo veleno [il morbo]». Tuttavia, sempre opportuno allontanarsi dai luoghi raggiunti dal morbo, specie se cintati o densamente popolati: «ti dichiaro che ove è procinto di mura o case continuate, multiplica la contagione… Fuggi dal luogo pestilentiale presto et dilungi et torna tardi». Secondo Ficino, inoltre, è necessario non alimentarsi con alcuni cibi quali il pesce, i funghi e diversi frutti, mentre la carne, le uova e il vino devono essere assunti senza eccessi. Il coito va escluso dalle «passioni dello animo», ed è appropriato astenersi «da bagni, dal sonno di mezo giorno, dalla stretta conversatione et dalla turba». Importante l’igiene della bocca e delle mani, con queste ultime da lavare «con aceto et qualche volta con vino potente». Fra i medicinali utili a scopi di profilassi, il migliore è la triaca, «regina di tutte le compositioni mandata da Dio». Chi non la possiede, assuma «le pillole contra morbo almeno hore quattro o cinque inanzi cibo …, beendovi sopra uno poco di vino bianco con acqua». Per inciso, le «pillole contra morbo» sono una sorta di pasticche, forse meglio di pallottoline, composte di vari ingredienti, fra cui «acetosità di cedro». Fra le terapie, consigliata in primo luogo la flebotomia, per altro molto praticata dai «doctori spagniuli et catelani». Il filosofo, inoltre, sostiene la necessità del vomito, per l’ammalato, che va provocato il primo giorno con «acqua tiepida, aceto et olio», e in quelli successivi con «cocitura di malva, mammola, bietola, orzo, lattugha, camomilla». L’autore si sofferma anche sulla «cura per cirusia», rilevando che il bubbone va cauterizzato. Più precisamente, causticato tramite sostanze – definite «roctori» – semplici o composte. Fra le prime, «vetriuolo, fior di rame…, arsenico, calcina viva… sterco di colombo…, ranocchio scorticato et arrostito…, ortica, senape». Fra le seconde, «pece con uve passule et mele; sterco di passere con sugna di porco; vetro pesto con trementina; sterco humano… et doppo la roctura aggiungnendovi sopra midolla di pane intinta in olio bollente; olio bollito con cenere». Probabile che alcuni lettori rabbrividiscano al pensiero di questi interventi, naturalmente eseguiti senza alcuna anestesia, ed è scontato che il dolore successivo non era mitigato dai vari rimedi proposti da Marsilio Ficino, quali vari impiastri (una sorta di unguenti) oppure «midolla di pane frescho caldo come escie del forno, intincto in vino acetoso o sugo di piantagine». Fra l’altro, agli stessi impiastri si sarebbero aggiunti metodi utili, nel pensiero del filosofo, «per fare cadere la carne trista dalla postema [l’escrescenza infetta]», «per mondificare la piaga», e infine «per rigenerare la carne buona». Fra questi ultimi, una miscela di coriandolo, mele e uve passite. L’autore si occupa pure dell’alimentazione dell’appestato, che va nutrito con «cose liquide, fresche… in modo pure che… non multiplichi la febbre». Fra queste, «sugo di cedro o di limoni o di melarancia, premuti con acqua et zuchero fine… overo rose, amarene, mirabolani, tamarindi, prune cotognie, pesche secche trite et in infusione in acqua». Necessario, ancora, che il malato «tenga la spugna al naso intincta in acqua rosa et aceto rosato et con vino odorifero, et spesso se ne lavi tucti e polsi et el viso». Lo stesso infermo deve dormire cinque o sei ore al massimo, poiché «dormire molto ritira el veleno indentro», e la camera in cui giace deve essere arieggiata, ma sempre in maniera che quegli non senta freddo. Intorno al suo letto vanno stese lenzuola bagnate nell’aceto, e con quest’ultimo vanno inumidite le mura della stanza, con quest’ultima, per altro, da riempire con «pampani, canne, salci, rose, citriuoli et altre verzure et fiori et pomi odoriferi». I panni del malato vanno cambiati ogni sei ore. Naturalmente, «chi governa gl’infermi» deve proteggersi dal contagio. Ficino consiglia alcune purghe e ribadisce l’importanza di lavare sovente le mani con aceto.

6. Considerazioni conclusive.

Per un uomo del XXI secolo che valuti le varie misure consigliate, sia preventive sia terapeutiche, esposte in questo capitolo (prima e seconda parte) e in quello precedente, soltanto quelle di isolare gli appestati o di fuggire dai luoghi infetti appaiono logiche e sensate. Senza dubbio, i roditori non amavano il fuoco, e forse neppure alcune essenze aromatiche. Va da sé, però, che le varie indicazioni – fondate su esperienze generiche e antiche di secoli – mai avrebbero potuto avere effetti benefici sulla peste bubbonica o, peggio ancora, sulla forma polmonare. Del resto, la scoperta, o almeno l’intuizione, dei microrganismi era ancora lontana, e così la loro osservazione. E si sarebbe dovuta attendere la fine del XIX secolo perché un ricercatore italiano, Vincenzo Tiberio (1869-1915), descrivesse il potere battericida di alcune muffe (1895), anticipando di più di trent’anni la scoperta della penicillina (1928) da parte di Alexander Fleming (1881-1955), e quindi la nascita ufficiale degli antibiotici. Pertanto, nel tardo Medioevo, ma anche nell’età moderna (convenzionalmente: 1492-1815), quando l’ideologia medica, per altro, era ancora troppo legata agli autori del passato, il sapere scientifico, almeno quello riguardante le malattie infettive, non poteva purtroppo spingersi molto lontano.

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