Introduzione.
Nel XIV secolo, in Europa, la peste non è una patologia nuova, ma ormai pressoché dimenticata: seicento anni sono trascorsi da quando l’ultima ondata della Peste di Giustiniano ha flagellato il continente. Pertanto, la ricomparsa del morbo, appunto nel Trecento, la sua rapida diffusione e i suoi effetti sovente letali, fanno sorgere, fra dotti e medici, gli interrogativi sulla provenienza e la causa del medesimo, ma anche su come si possa curare. Questo secondo aspetto sarà trattato nel XII capitolo.
1. Le opinioni dei dotti.
I dotti disdegnano le tesi colpevoliste che agitano le masse, richiamate nel capitolo a questo precedente, ritenendo che l’origine e la causa della peste – considerata castigo divino per i peccati commessi dagli uomini – siano da ricercare in eventi astrologici o astronomici (talvolta ritenuti segni premonitori) o in fenomeni naturali. Il coltissimo Giovanni Villani (†1348), per il morbo che arriva a Firenze, fa riferimento alla grandine fuori stagione, ma soprattutto alla comparsa, in cielo, di una cometa: «nel detto anno [1347], del mese d’agosto, aparve in cielo la stella commeta che essi chiama Nigra, nel segno del Tauro […]. Questa Nigra è della natura di Saturno, e per sua infruenzia si cria […]; e ingenerò grande mortalità ne’ paesi ove il detto pianeto e segno signoreggiano; e bene il dimostrò in Oriente e nelle marine d’intorno». Il cronista in parola, di lì a poco, sarebbe stato ucciso proprio dalla peste. Jean de Venette (†1366), prima priore del monastero carmelitano di Place Maubert, a Parigi, e poi superiore provinciale di Francia, osserva che la peste ha raggiunto varie località poco dopo l’apparizione della cometa poc’anzi richiamata: «nell’anno del Signore 1348 la Francia e quasi tutto il mondo furono colpiti dal destino in un modo che non è paragonabile a una guerra […]. Era il mese di agosto [del 1347] quando sopra Parigi, verso ovest, apparve una stella molto grande e brillante […]. Alla fine questa grande stella si frantumò in molti raggi diversi, scomparve e si dissolse completamente. La sua luce svanì sui quartieri orientali di Parigi. Se si sia trattato solo di un astro formato da esalazioni e dissoltosi poi in vapori, vorrei lasciarlo giudicare agli astronomi. Ma è anche possibile che si trattasse solo dell’annuncio della terribile epidemia di peste che in realtà, poco tempo dopo, travolse Parigi, la Francia e altri paesi». Alcuni dotti – ma anche medici, come si osserverà fra poco – si rifugiano nella congiunzione astrale fra Marte, Giove e Saturno, ritenuta nefasta, con lo studioso Konrad von Megenberg (1309-1374) che la ritiene, se non la principale, almeno una delle cause che possono provocare movimenti agitati o violenti sulla Terra. Matteo Villani (†1363) invoca un imprecisabile «grande fuoco dal cielo», e c’è pure chi scorge le origini e la ragione del morbo in eventi capaci di provocare lo sconvolgimento di uno dei quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco. Fra tali fenomeni, il violento terremoto del 25 gennaio 1348, con epicentro fra gli odierni Friuli e Slovenia, che causa vittime (circa diecimila quelle stimate), feriti e danni ingenti non solo in Italia e nella stessa Slovenia, ma anche in Dalmazia, in Carinzia e in Germania, e precede, non di molto, l’arrivo della patologia nelle medesime zone. Taluni, appunto, pensano che il sisma sia causa, o almeno concausa, della patologia, poiché ha liberato aria pestilenziale dal ventre del pianeta.
2. L’ideologia medica: generalità.
Nel XIV secolo, virus e batteri sono ancora ben lontani dall’essere conosciuti e osservati, e fra i sanitari nessuno pensa ai roditori e alle pulci, una fauna da sempre presente nelle città, soprattutto nei luoghi più sporchi e affollati, e quindi non un’anomalia da spiegare. Gli stessi medici del tempo si affidano agli antichi luminari, e in particolare a Ippocrate e Galeno, vissuti, rispettivamente, quattro secoli prima e duecento anni dopo la nascita di Cristo. Costoro ritenevano che le malattie fossero causate da uno squilibrio, all’interno del corpo, dei quattro umori: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. In particolare, un eccesso di sangue, umore caldo-umido, poteva determinare la putrefazione degli organi interni, che, nel convincimento di molti sanitari trecenteschi, faceva parte del processo della peste. Si pensa che all’origine della putrefazione medesima stiano alcuni cibi – quale il pesce guasto – ma soprattutto l’aria, corrotta dai miasmi. La teoria miasmatica era stata elaborata da Ippocrate, il quale aveva sostenuto: «allorché molti uomini son colti da una sola malattia nello stesso tempo, occorre imputarne la causa a ciò che v’è di più comune e di cui tutti in primo luogo ci serviamo: e questo è ciò che respiriamo». L’assunto in parola sarebbe stato indebolito, nel XVI secolo, dalle straordinarie intuizioni, in campo batteriologico, di Girolamo Fracastoro (1479-1553). Questi, nell’opera De contagione et contagiosis morbis et curatione, ipotizza – primo sanitario della storia – che alcuni corpuscoli, da lui definiti seminaria, sono responsabili della malattia. Un genio, giustamente considerato fra i padri della moderna patologia, che meriterebbe ampio approfondimento. Non è questa la sede. Qui conta rilevare, invece, come la teoria miasmatica sia sopravvissuta fino all’Ottocento, epoca in cui la scienza, finalmente, riduce gli eventi del contagio e dell’infezione a un rapporto di natura biologica fra il microrganismo, il suo eventuale vettore (come nella peste bubbonica) e l’ospite. Ad ogni modo, sebbene l’ipotesi in parola sia perdurata, appunto, oltre due millenni, in nessuna epoca un esperto riesce a spiegare la composizione dell’aria corrotta: molto genericamente, anche nel XIV secolo, si fa riferimento a miasmi generati dalle acque stagnanti, dai materiali di scarto accumulati un po’ ovunque, dagli escrementi, dai fenomeni naturali, astronomici o astrologici, dal clima e dalle esalazioni che giungono dai malati, ossia dal loro cattivo odore e – in questo caso con una certa ragione – dal loro respiro. Molto temuti, in quest’ottica, i venti caldi e umidi provenienti da Sud, considerati anzi come una delle insidie maggiori, poiché capaci di debilitare i corpi e predisporli alla trasmissione della patologia. A proposito di quest’ultima, i sanitari del Trecento – e non soltanto loro – comprendono presto che la peste è appunto contagiosa. Naturalmente, anche sulla base di drammatiche esperienze di alcuni, che si sono ammalati, e son poi deceduti, dopo aver visitato gli appestati. Nondimeno, è opportuno precisare che la tesi dell’aria corrotta non escludeva quella del contagio: i due modelli, anzi, devono essere accostati. I medici dell’epoca, infatti, ritenevano che la comparsa della malattia fosse dovuta ai miasmi, e il successivo propagarsi del contagio al diffondersi della corruzione: pertanto, due stadi successivi del medesimo processo.
3. Guy de Chauliac e il caso di papa Clemente VI.
Proprio alla corruzione dell’aria si appellano, fra i tanti, Pierre de Damousy, Chalin de Vinario e Guy de Chauliac (†1368), archiatra pontificio. Quest’ultimo, come già osservato nel presente lavoro (ved. cap. III), è eccezionalmente autorizzato dal papa, Clemente VI, nato Pierre Roger (†1352), a eseguire autopsie sui cadaveri delle persone decedute a cagione del morbo. Del resto, la peste ha raggiunto la sede papale – all’epoca Avignone – dal gennaio del 1348, causando in breve tempo uno spaventoso numero di decessi, al punto che lo stesso Clemente VI, non essendoci più posto nei cimiteri per seppellire i morti, si trova costretto a consacrare il Rodano al fine di gettarvi i corpi. Guy de Chauliac, appunto, riesce a distinguere la forma bubbonica da quella polmonare, ma ritiene che l’attacco alle vie respiratorie dipenda proprio dai miasmi presenti nell’aria. In ragione delle sue scoperte, ma anche della sua opinione, consiglia al suo più illustre paziente di lasciare la dimora. Il pontefice, dimostrando un notevole coraggio, respinge questo suggerimento del suo medico, ma ne accetta un altro: quello di trascorrere le sue giornate chiuso in una stanza, in cui l’aria corrotta va purificata tramite due fuochi, che devono ardere costantemente in altrettanti bracieri. Clemente VI, in effetti, non contrae la malattia, ma è lecito ritenere, alla luce delle attuali cognizioni scientifiche, che la sua salvezza sia dipesa non tanto dalle fiamme – sebbene queste potessero tenere lontani roditori e pulci – quanto, piuttosto, dal richiamato isolamento.
4. La tesi del «soffio pestifero». Gentile da Foligno.
Le ipotesi sulla patogenesi del morbo raggiungono il culmine con quella sul soffio pestifero, elaborata da Gentile da Foligno. Giusta tale teoria, il 20 marzo del 1345, a causa di una nefasta congiunzione fra Marte, Giove e Saturno, esalazioni malsane erano state risucchiate nell’aria dal mare e dalla terraferma, subendo un riscaldamento. In seguito, gli stessi miasmi erano stati di nuovo gettati sulla terra come vento corrotto (aer corruptus). Se questo soffio pestifero era inspirato dall’essere umano, vapori velenosi si sarebbero raccolti intorno al suo cuore e ai suoi polmoni, condensandosi e diventando una sorta di massa, anch’essa velenosa, che avrebbe infettato gli organi medesimi. Inoltre, il soffio, attraverso l’aria espirata, avrebbe potuto contagiare persone che fossero state a stretto contatto con il malato. A un uomo di oggi, la teoria appare di certo bizzarra e stravagante, ma sia chiaro che il medico in parola è soltanto figlio del suo tempo, durante il quale si dimostra anzitutto sanitario abile, grazie alla profonda conoscenza della scienza antica e di quella a lui coeva. Non per niente, intorno al 1340, è chiamato a Padova in qualità di medico personale del locale signore, Ubertino da Carrara (†1345). Gentile è anche ottimo docente in tre, forse quattro, diversi atenei, e autore di opere varie, quali, ad esempio, un Consilium contra pestilentiam (sul quale si tornerà in altro capitolo), il De febribus, il De Lepra, la Summa medicinalis, ma soprattutto il commento ai cinque libri del Canone di Avicenna (980-1037), l’imponente trattato di sistematizzazione delle tesi sanitarie e filosofiche di Ippocrate, Galeno, Dioscoride e Aristotele, che grande fortuna avrebbe conosciuto negli ambienti accademici fino al Cinquecento, e in alcune università addirittura fino al XVIII secolo. Naturalmente, con il trascorrere del tempo, e quindi con i risultati via via ottenuti dalla scienza, gli scritti del folignate avrebbero perduto l’iniziale prestigio: tuttavia, almeno nella sua epoca, egli è certamente uno dei migliori medici e accademici fra quelli della Penisola. Alle capacità scientifiche, Gentile avrebbe unito straordinarie virtù morali: difatti, incurante dei rischi, si sarebbe dedicato, con tutto se stesso, agli appestati, fino a restare egli stesso vittima del morbo, nel mese di giugno del 1348. Proprio per la sua abnegazione, l’ateneo di Perugia, nel 1911, in occasione dell’inaugurazione dell’Aula Magna, ha posto, nella stessa, un busto in suo onore.
5. La relazione dell’università di Parigi.
Nel 1348, il sovrano Filippo VI di Valois, detto il Fortunato (1293-1350), incarica la facoltà di Medicina dell’università di Parigi di stendere una relazione sulle cause del morbo. Gli accademici riprendono la tesi di Gentile da Foligno, pur manifestando una maggiore pomposità. Segnatamente, così si esprimono: «la causa lontana e prima di questa pestilenza era ed è la configurazione dei cieli. Nel 1345, un’ora dopo mezzogiorno del 20 marzo, ci fu un’importante congiunzione di tre pianeti in Acquario. Questa congiunzione, insieme ad altre precedenti congiunzioni ed eclissi, causando una corruzione mortale dell’aria intorno a noi, significa mortalità e carestia […]. Per conseguenza quest’aria, così corrotta, penetrando necessariamente nei polmoni [li] fa andare in putrefazione […]. Aristotele testimonia che questo è il caso in cui la mortalità delle razze e lo spopolamento dei regni avvengono alla congiunzione di Saturno e Giove, poiché sorgono allora grandi eventi, e la natura di questi eventi dipende dal trigono in cui avviene la congiunzione. E questo si trova negli antichi filosofi, e Alberto Magno dice che la congiunzione di Marte e Giove provoca una grande pestilenza nell’aria, specialmente quando avviene in un segno caldo e umido, come nel 1345. Poiché Giove, essendo umido e caldo, aspira vapori cattivi dalla Terra e da Marte, perché è eccessivamente caldo e secco, di conseguenza c’erano vapori nocivi e incendi in tutta l’aria. Questi effetti sono stati intensificati perché Marte – un pianeta malevolo, che alimenta rabbia e guerre – è stato nel segno del Leone dal 6 ottobre 1347 fino alla fine di maggio di quest’anno […], e perché tutte queste cose sono calde attiravano molti vapori; ecco perché l’inverno non era così freddo come sarebbe dovuto essere. E anche Marte era retrogrado e quindi attirava molti vapori dalla terra e dal mare che, mescolati con l’aria, ne corrompevano la sostanza. Anche Marte guardava Giove con un aspetto ostile, cioè quartile, e che causava una cattiva disposizione o qualità dell’aria, dannosa e odiosa per la nostra natura. Questo stato di cose ha generato forti venti perché secondo Alberto nel primo libro della sua Meteora, Giove ha la proprietà di sollevare potenti venti, in particolare da sud che hanno dato origine al calore e all’umidità in eccesso sulla terra; anche se in effetti era l’umidità quella più marcata nella nostra parte del mondo». Per inciso, è attualmente noto che le temperature di Marte e di Giove sono tutt’altro che calde, come sostenuto dai docenti parigini: nondimeno, dalle loro parole, si può notare come, all’epoca, esistesse una buona conoscenza dell’astronomia. Quindi, l’espressione «nel Medioevo tutti pensavano che la Terra fosse piatta», che qualcuno oggi si ostina ad usare, è frutto di ignoranza, oltre che semplicemente ridicola.