1. Ignoranza, superstizione e stigma sociale.
Nel corso della pandemia, sono in tanti a ritenere che la patologia sia una manifestazione della collera divina, giunta a flagellare gli uomini per i loro peccati. Di questo parere è, fra gli altri, Giovanni Boccaccio (1313-1375) che, nella sua opera più celebre, fa esplicito richiamo all’«ira di Dio», giunta «a punire l’iniquità degli uomini». Anche Matteo Villani (†1363) ha quell’opinione: «per la macchia del peccato la generazione umana tutta è sottoposta alle temporali calamità e a molta miseria e a innumerabili mali […], come sono inquietazioni di guerre, movimenti di battaglie, furore di popoli, mutamenti di reami, occupazioni di tiranni, pestilenzie, mortalità e fame, diluvi, incendi, naufragi e altre gravi cose delle quali gli uomini ne’ cui tempi avvengono, quasi da ignoranza soppresi, più forte si maravigliano e meno comprendono il divino giudicio e poco conoscono il consiglio e ’l rimedio dell’avversità, se per memoria di simiglianti casi avvenuti ne’ tempi passati non hanno alcuno ammaestramento». Tale convinzione presumeva sovente l’individuazione di una colpa, e quindi di un reo, che era riconosciuto in quelle figure che la massa, ignorante e superstiziosa, percepiva come estranee, e dunque come minacciose: Ebrei, lebbrosi, streghe, vagabondi e prostitute, alla cui minaccia, appunto, si reagiva con brutalità, fino all’omicidio o alla strage.
2. L’antisemitismo durante la Peste Nera: a) generalità.
Proprio agli Ebrei non si contestava tanto uno specifico delitto, se non, talvolta, l’avvelenamento dei pozzi, quanto l’appartenenza al relativo popolo, giusta i cardini di uno stigma sociale già allora piuttosto diffuso. Del resto, era opinione comune che gli Ebrei stessi, già resisi responsabili di deicidio, fossero ladri, usurai, cospiratori, profanatori di ostie, autori di rituali con sacrifici umani. Pertanto, anche se alcuni potevano essere costretti, sotto tortura, a confessare di avere, appunto, infettato le acque, i colpevoli erano tutti. La conseguenza sono i pogrom, che avvengono soprattutto in Spagna, Francia, Paesi Bassi, Germania e Svizzera (da intendersi negli attuali confini).
3. Segue: b) varie stragi
A Tolone, il 13 aprile 1348, sono uccisi quaranta Ebrei. Seguono massacri a Forcalquier e Manosque, in Linguadoca, a Narbonne e Carcassonne. Il 13 maggio dello stesso anno, a Barcellona, il quartiere ebraico è saccheggiato, e durante l’operazione diversi residenti perdono la vita. Ancora nel 1348, gli Ebrei sono trucidati nella regione del Bugey, a Miribel, a Zurigo, ad Augusta, a Würzburg e a Monaco. L’anno successivo, si registrano stragi a Basilea e a Friburgo prima che a Strasburgo, il 14 febbraio, sia uccisa almeno la metà dei quattromila Ebrei ivi residenti. Quelli di Worms, il 1° marzo 1349, scelgono di appiccare il fuoco alle loro case, e di morire fra le fiamme, anziché finire nelle mani della folla in rivolta. Le vittime sono almeno quattrocento. A Erfurt, il 21 dello stesso mese, sono trucidati diversi Giudaici: forse addirittura tremila, giusta una stima, per il vero, non molto recente. In ogni caso, le vittime sono non meno di centocinquanta. A Magonza, in agosto, si ripete quanto già accaduto a Worms, sebbene gli Ebrei del luogo, prima di incendiare le loro abitazioni e perdere la vita nei roghi relativi, provino a difendersi, riuscendo a uccidere circa duecento dei cittadini che li avevano attaccati. Altre stragi accadono a Francoforte, Colonia, Norimberga, Königsberg (odierna Kaliningrad), Ratisbona, Hannover, Krems e in moltissimi altri centri. Nella sola Germania, sono oltre trecento le città in cui uomini, donne e bambini di religione ebraica subiscono attacchi, con esiti drammatici. Le fonti non sono univoche, ma secondo alcuni storici, almeno in alcuni casi sono i flagellanti – richiamati nel capitolo a questo precedente – a istigare le popolazioni nei confronti degli Ebrei.
4. Il pogrom di Strasburgo.
Noto anche come massacro di san Valentino, in ragione del giorno in cui si è verificato, il pogrom di Strasburgo, poc’anzi accennato, è il più documentato fra tutti quelli occorsi durante la pandemia del Trecento. In realtà, agli inizi del 1349, la peste non ha ancora raggiunto quel centro alsaziano, ma la notizia della sua rapida diffusione ha creato panico e tensione. Nella prima settimana di febbraio, il vescovo della città, Bertoldo di Bucheck, noto anche come Berthold III (†1353), attacca verbalmente gli Ebrei, e a sobillare i cittadini, ci pensano anche vari signorotti locali, già debitori degli stessi Ebrei o dei cui beni mirano a impadronirsi. I governanti locali intendono proteggerli, anche perché gli esosi dazi e tasse sono versati proprio dai Giudaici – che sono i maggiori contribuenti – come corrispettivo della loro salvaguardia. Inoltre, la situazione potrebbe degenerare, con conseguente perdita di potere appunto dei governanti, per altro già avvertiti, con una lettera giunta da Colonia, del rischio di violente ribellioni popolari, già verificatesi in altri luoghi in cui erano occorsi numerosi decessi e gravi devastazioni. Si susseguono, pertanto, vari inviti alla calma, e sono pure assunte alcune misure. Nondimeno, il 10 febbraio di quel 1349, l’insurrezione esplode e il consiglio è rovesciato dalla folla in rivolta. Questa inveisce soprattutto contro Pierre Schwaber, l’Ammeister (ossia il capo delle corporazioni commerciali), che è considerato investito di eccessivo potere, ma soprattutto fautore di una politica troppo benevola nei riguardi degli Ebrei. Anche lo Stettmeister (sindaco) Conrad Kuntz von Winterthur e il giudice Jakob Sturm von Sturmeck sono costretti a lasciare i loro incarichi. Si insedia una sorta di governo popolare, il quale ordina subito l’arresto di moltissimi Giudaici, con l’accusa di omicidio, conseguente all’avvelenamento dei pozzi. Un’imputazione del tutto infondata, atteso che il morbo, come accennato, non è ancora arrivato a Strasburgo, e considerato, pure, che gli Ebrei stessi, altrove, sono morti di peste proprio come i cristiani. Tuttavia, come già rilevato, è sufficiente appartenere a quel popolo per essere ritenuti colpevoli: una specie di responsabilità penale oggettiva, una barbarie giuridica. Così, il 13 febbraio, cittadini in armi trascinano almeno duemila Giudaici fuori dalle loro case, conducendoli all’interno del loro cimitero. La sola possibilità di salvezza, per tutti quegli uomini, donne e bambini, è la conversione al cristianesimo. L’alternativa è la morte, che giunge il giorno dopo, con metodo crudele: le persone sono arse vive.
5. Papa Clemente VI e il bilancio dei pogrom.
Il 4 luglio 1348, papa Clemente VI, nato Pierre Roger (†1352), emana una bolla con la quale proibisce di imputare agli Ebrei reati immaginari e quindi di toccarne vita o sostanze «prima di sentenza del legittimo giudice». In realtà, la lettera si rivela quasi del tutto inefficace: come accennato in precedenza, in varie città dell’Europa occidentale, i Giudaici sono vittime di diversi pogrom. Il pontefice riesce a proteggere soltanto gli Ebrei che vivono nelle vicinanze della sua sede, vale a dire di Avignone. Tuttavia, proprio le stragi che si susseguono spingono Clemente VI a emettere una seconda bolla, il 26 settembre 1349. Con questa, dopo aver premesso, con un certo acume, di detestare «la perfidia dei Giudei», ne ripete l’innocenza e si rivolge ai governanti, affinché i vari cittadini «non si permettano mai di perseguitare, ferire o uccidere i Giudei». Questa volta, il provvedimento ha il potere di mettere un notevole freno ai massacri: gli ultimi due, sul finire dello stesso anno, avvengono ad Anversa e Bruxelles. In ogni modo, il bilancio dei vari pogrom è inevitabilmente tragico. Giusta attendibili stime, le vittime sono 50.000, e assai meno i superstiti, sovente scampati alla morte grazie alla fuga e al successivo rifugio trovato, fra l’altro, nell’Italia settentrionale. Anzi, proprio la Penisola, dal 1350, diventa principale luogo d’immigrazione per gli Ebrei sopravvissuti alle stragi negli altri Paesi ad Ovest del continente. Stragi che rappresentano una sorta di drammatica anticipazione di quello che, circa sei secoli dopo, sarà l’Olocausto, il più grave crimine perpetrato nell’intera storia dell’umanità.
6. Dai pogrom medievali all’Olocausto.
Alcuni storici hanno individuato un certo filo comune fra i pogrom del Trecento – per altro successivi ad altri occorsi in Germania nel 1298 – e la Shoah. Questo è vero fino ad un certo punto. Sicuramente, come sopra rilevato, nelle folle medievali era già diffusa una profonda avversione nei confronti degli Ebrei, e neppure è revocabile in dubbio che Martin Lutero (1483-1546) li considerasse «velenose, aspre, vendicative, perfide serpi, assassini e figli del demonio», e invitasse quindi il popolo a «dar fuoco alle loro sinagoghe o scuole», a «distruggere e smantellare le loro case», a scacciarli come «cani rabbiosi». È pure certo che gli ideologi nazisti manifestano a più riprese la loro ammirazione per i rivoltosi medievali e proprio per Lutero, più volte richiamato da Julius Streicher (1885-1946) nei suoi articoli sulla rivista Der Stürmer, di chiaro stampo antisemita, da lui stesso diretta. Tuttavia, i teorici del Terzo Reich sono stati figli non tanto del loro lontano passato, quanto, e soprattutto, di altro a loro più prossimo. Segnatamente, quello dell’illuminismo materialista e del razzismo scientifico, creato dai seguaci della frenologia, di altre pseudoscienze dell’Ottocento e della tesi del delinquente nato, elaborata da Cesare Lombroso (1835-1909), secondo cui i criminali erano riconoscibili per innate anomalie somatiche o costituzionali. Gli speculatori nazisti sono stati figli, ancora, della divinizzazione dello Stato, teorizzata da Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), della dottrina del Superuomo di Friedrich Nietzsche (1844-1900), del nazionalismo ateo, della secolarizzazione e della cosiddetta morte di Dio. Quest’ultima, in particolare, aveva sganciato l’idea di uomo da quella di creatura, così annullando il passo biblico in base al quale l’uomo stesso – qualsiasi uomo – è creato a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,27).
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