I. IL CAVALIERE
Ercole Cantelmo, “giovane di somma espettazione“, come lo chiama il Guicciardini, cavaliere bellissimo e ardito, discendeva da una nobile famiglia del regno di Napoli trapiantata a Ferrara. Il vicentino Luigi da Porto, suo contemporaneo, così ce lo descrive: “giovine costumatissimo e ad ogni sorta d’armi tanto disposto, quanto della persona vago e leggiadro, ch’era una meraviglia“. Da Paolo Giovio è similmente lodato come giovane di gran valore.
II. LA MORTE CRUDELE
È il 30 novembre 1509, siamo nell’ambito della Guerra della Lega di Cambrai. Ercole apparteneva alla schiera di cavalieri del cardinale Ippolito d’Este (1479-1520): prete sì, ma violento e gagliardo nell’arme (“il più disposto corpo con il più fiero animo“, scrive lo stesso Luigi da Porto). Questi ordinò di dare battaglia al bastione costruito dai veneziani su una sponda del Po, dal quale le artiglierie danneggiavano grandemente il territorio circostante.
Il giovane Ercole, “acceso da soverchia brama d’onore“, montò sopra un grande corsiero (un frisone liardo) e si unì ai compagni, “anzi primo di tutti” andò ad attaccare battaglia ai nemici, “con tanto furore, ch’essi ne furono tutti turbati, e prima che si potessero ritirare […] molti ne morirono“. Ma quel cavallo era, quanto possente, tanto irrequieto, e lo stesso Ercole, “dalle morte percosse ricevute quasi stordito“, ne fu rapidamente trasportato sulla riva opposta: disgraziatamente finì non nell’acqua ma, “come volle la cruda sua sorte, nella tenera sabbia“. Qui s’impantanò e, non potendo liberarsi, “fu il tristo giovine da’ galeotti schiavoni facilmente preso“, spogliato delle armi, dei vestiti e del cavallo. Uno di questi mercenari, crudelissimi per natura di popolo, non riuscendo a sfilargli un anello, gli tagliò di netto un dito.
Quindi lo condussero sopra un palischermo (una nave) da guerra e nonostante Ercole domandasse pietà e promettesse – secondo quelle che erano le usanze comuni a tutti in guerra – un riscatto di ben 4000 ducati in cambio della propria vita, gli schiavoni vollero dare ai nemici un crudele esempio della propria ferocia. Qui, dinanzi agli occhi del misero padre Sigismondo e di tutto l’esercito ducale, che assisteva impotente dall’altra riva, il giovane fu obbligato a piegare la testa su uno scalmo e “contra ogni usanza di guerra, con barbara e ampia rabbia” decapitato, “non senza infamia di tanti nobili viniziani, che erano in quell’armata” e che non si opposero.
Dice Pietro Bembo, che nella sua borsa furono poi trovate lettere della sua innamorata, la quale lo supplicava di non voler combattere contro i veneziani, quasi presaga del destino funesto che gravava sulle sue spalle. Secondo Girolamo Contarini le lettere erano invece della madre.
Una morte ingiusta e perfettamente evitabile, ai danni d’un giovane bello, buono, ardito, la cui unica colpa fu di servire con troppa devozione la patria. Ma non rimase impunita: pochi giorni dopo, 22 dicembre, avvenne la famosa battaglia di Polesella, guidata in parte proprio dal padre Sigismondo. Fu una disfatta dolorosissima per i Veneziani, la cui flotta fu pressoché annientata e l’esercito sterminato dalle possenti artiglierie del duca Alfonso I d’Este (1476-1534).
Quest’ultimo si preoccupò di riscattare il corpo: fece ricucire la testa, lo imbalsamò e dopo solenni funerali lo fece seppellire nella chiesa di San Francesco a Ferrara. Qui Ercole riposò in pace fino al 1600 quando, perduta ogni memoria della sua identità, i frati francescani non pensarono bene di usarlo come un manichino per degli spettacoli. Vilipeso per anni, nel 1668 fu infine riconosciuto da un suo lontano discendente, Don Jacopo Cantelmo di Sora, riscattato e onoratamente sepolto come meritava.
Con questi commoventi versi Ludovico Ariosto, che aveva assistito alla sua morte, gli rese omaggio nel suo Orlando Furioso:
Qual Ettorre ed Enea sin dentro ai flutti,
per abbruciar le navi greche, andaro;
un Ercol vidi e un Alessandro, indutti
da troppo ardir, partirsi a paro a paro,
e spronando i destrier, passarci tutti,
e i nemici turbar fin nel riparo,
e gir sì inanzi, ch’al secondo molto
aspro fu il ritornare, e al primo tolto.
Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo.
Che cor, duca di Sora, che consiglio
fu allora il tuo, che trar vedesti l’elmo
fra mille spade al generoso figlio,
e menar preso a nave, e sopra un schelmo
troncargli il capo? Ben mi maraviglio
che darti morte lo spettacol solo
non poté, quanto il ferro a tuo figliuolo.
Schiavon crudele, onde hai tu il modo appreso
de la milizia? In qual Scizia s’intende
ch’uccider si debba un, poi che gli è preso,
che rende l’arme, e più non si difende?
Dunque uccidesti lui, perché ha difeso
la patria? Il sole a torto oggi risplende,
crudel seculo, poi che pieno sei
di Tiesti, di Tantali e di Atrei.
Festi, barbar crudel, del capo scemo
il più ardito garzon che di sua etade
fosse da un polo e l’altro, e da l’estremo
lito degl’Indi a quello ove il sol cade.
Potea in Antropofàgo, in Polifemo
la beltà e gli anni suoi trovar pietade;
ma non in te, più crudo e più fellone
d’ogni Ciclope e d’ogni Lestrigone.
III. LE FONTI
– Lettere storiche, dall’anno 1509 al 1528, Volume 1, Luigi Da Porto, F. Le Monnier, 1857, pp. 156-157.
– Della istoria d’Italia di M. Francesco Guicciardini, gentiluomo fiorentino, libri XX , Appresso Michele Kluch, 1775, p. 258.
– I diarii di Marino Sanuto (MCCCCXCVI-MDXXXIII) dall’ autografo Marciano ital. cl. VII codd. CDXIX-CDLXXVII · Volumi 8-9, 1882.
– Ferocia e blasfemia Ercole, di Mario Zaniboni.
– Le vite di dicenoue huomini illustri, descritte da monsignor Paolo Giouio, etc, Lodovico Domenichi, Giovan Battista Gelli, 1561.
(Col contributo di Alessia Tarantello)