1. INTRODUZIONE
Folle in arabo si traduce con il termine “majnûn“, ossia “posseduto dai jinn“. Nei tempi preislamici il folle era dunque considerato posseduto dagli spiriti, in balia di forze sovrannaturali fossero esse demoniache o divine. Con l’avvento dell’Islam divenne di importanza fondamentale la ragione, (al ‘aql) la capacità di discernere, il libero arbitrio. Nel pazzo la ragione non funziona più e, pertanto, non gli si può addebitare alcuna colpa. Il Corano ordina di proteggere l’alienato. Su questa base il termine follia si adattò lungo i secoli sia alle alienazioni mentali, sia agli stati estatici, alle passioni amorose travolgenti, al misticismo dei profeti ispirati da Dio.
2. LA MEDICINA MUSULMANA
La medicina musulmana fu la prima a dare un connotato scientifico alla follia. Per tutto il Medioevo, in Europa, il disagio mentale era ancora legato alla ribellione sociale, al mancato rispetto dei rituali, alla perdita di una sostanza vitale del corpo, l’anima, alla possessione di spiriti o alla stregoneria. Si dovrà infatti attendere la fine del Settecento per avere la prima formulazione organicista della follia.
Nel suo primo periodo di formazione, la medicina musulmana era la sintesi delle medicine ippocratea e galenica, esercitate soprattutto ad Alessandria d’Egitto, ma anche iraniana e indiana. Le strutture ospedaliere arabe avevano la prerogativa di essere collegate ai centri di elaborazione culturale, come quello di Gundishapur, portato avanti dai seguaci di Nestorio. Questa innovazione della cultura medica araba permise alla pratica clinica di non essere solo elaborazione teorica. Il collegamento arabo tra centro di insegnamento accademico della medicina ed l’ospedale, per la prima volta, fu realizzato dal califfo di Damasco Umayyad, nel 706, e poi a Bagdad, dove re Giorgio il Nestoriano fondò un grande ospedale nel 760. Anche il Grande Rhazes (860-925) fu direttore di un ampio centro medico, organizzato secondo criteri eccezionali per l’epoca, che prevedevano la presenza di personale sanitario a ruoli differenziati e non volontari, quali quelli che prestavano la propria opera di soccorso presso gli ospitia e xenodocheia — strutture con generica destinazione di ricovero di deboli, malati e bisognosi, a carattere religioso e non specificatamente medico — in funzione nell’Occidente cristiano, ma di personale pagato. Questo ospedale aveva sezioni speciali per gli alienati.
3. IL PRIMO MANICOMIO
Il primo ospedale specifico per il disagio psichiatrico venne fondato da Nûr âlDîn Mahmud Zanjî, ad Aleppo, poco dopo il 1157. Ricostruito nel 1260 dal mamelucco âl Nasir, era diviso in tre orientamenti davvero molto moderni: esordio, cura, cronici. Il malato mentale nella prima fase della cura, era isolato nella semioscurità. Nei cortili vi erano fontane zampillanti che dovevano favorire la sedazione insieme all’isolamento.
Il secondo periodo di cura prevedeva il semi-isolamento e l’aumento della luce. Le finestre dei nosocomi erano protette da sbarre e per i malati furiosi, non essendo ancora in uso le camicie di forza, si usavano le catene. All’interno vi era anche la farmacia.
Altri importanti manicomi, notevoli anche dal punto di vista architettonico, furono quello turco di Divrigi, creato nel 1228 per ordine della principessa Turan Malk, e quello di Edirne, un tempo capitale dell’impero ottomano, fatto erigere da Beyazit II nel 1498, e nel quale, come scrisse anche il famoso storiografo turco Evlia Celebi, vi si praticava anche la musicoterapia, la cromoterapia e l’idroterapia per la cura degli stati schizofrenici.
In Europa, il primo ospedale psichiatrico propriamente detto fu aperto a Valencia, in Spagna, solamente nel XV Secolo, sulla scia dei modelli arabi.
4. I GRANDI MEDICI ARABI
Avicenna, ovvero ‘Abu Alì al Husayn ibn Abdallah ibn Sina’ (980-1037), vissuto alla fine del X Secolo, scrisse — fra gli altri suoi trattati — il “Kitaab al Qanum fii l al Tibb’” composto di 14 volumi (Il libro del “Canone della Medicina”). Avicenna sostenne l’importanza di una mente sana in un corpo altrettanto sano e, a questo riguardo, consigliò un’alimentazione adeguata, il movento fisico e l’uso di farmaci creati alla bisogna. Avicenna affermava che tutte le scienze potevano contribuire alla guarigione delle alienazioni, la musica in primis.
Avicenna si interessò dei disordini della mente e a suo modo fu il primo a praticare la psicoterapia. Non è chiaro se sia un aneddoto, ma si legge che Avicenna consigliò di metter un pesante casco sulla testa di uno psicotico, il quale diceva di non avere più la testa. Dopo un certo tempo il malato supplicò affinché gli togliessero quell’oggetto dal capo. In un’altro aneddoto, visitò il figlio anoressico — o la figlia, secondo diversi testi — di un pascià o di un sultano. Tenendo il polso del ragazzo, lo invitò a parlare. Il ragazzo raccontò di una città, di una strada, di una casa e qui si fermò per un attimo e prima che pronunziasse il nome di una giovane, il suo battito cardiaco aumentò notevolmente. Avicenna sentenziò che il giovane era affetto dal mal d’amore. Dai mesopotamici, Avicenna attinse l’uso, in farmacologia, dei cereali, dei lupini, di adeguate dosi di veleno, di narcotici, di nitrato di potassio, di vino — proibito dal Corano, a meno che non serva per uso curativo — e dell’elleboro bianco. Dai tuberi di questa pianta si ricavava una polvere dalle proprietà cardiotoniche e narcotiche; era usata per la cura delle forme maniacali e per l’epilessia.
5. RHAZES
Quasi contemporaneo di Avicenna fu Abu Bakr Muhammad al Razi,, conosciuto in occidente come Rhazes (844-926 d.C.). Con al-Razi la clinica diventò più scientifica tramite l’introduzione dei tre interventi fondanti della medicina: diagnosi, prognosi, casistica. Anch’egli annetteva importanza alla sanità mentale come garante di quella fisica. Fu autore di libri sulla sessualità, molto graditi ai sultani. Importante, per al-Razi, erano anche il digiuno periodico e la musicoterapia. Interessato, come tutti i medici del tempo, soprattutto alle forme di melanconia riconosciute come stati depressivi, consigliava il divago sottoforma di giochi; ad esempio quello degli scacchi, le partite sportive e quelle di caccia. A suo avviso, la malinconia o melanconia non è una vera e propria malattia, ma un offuscamento della mente, spesso transitorio.
Furono proprio Avicenna e al-Razi a introdurre l’uso del termine psicoterapia. Al-Razi parla di “tabdir” e di “nafsdni”, cioè terapia psichica: “nafs” significa anima.
6. TESTIMONIANZE ILLUSTRI
Furono molti i viaggiatori che visitarono ammirati gli ospedali arabi. Nel XII Secolo, l’ebreo spagnolo Benjamin da Tudela descrisse ammirato il ‘manicomio estivo’ del califfo di Bagdad. I matti, per sfuggire alla calura della stagione, venivano tenuti in un apposito edificio sebbene trattenuti da ceppi di ferro. Questo trattamento, racconta l’ebreo, era riservato anche a quelli che davano in escandescenze l’estate ma che poi, ai primi freschi, rinsavivano. Il califfo si faceva carico economicamente del mantenimento dei pazienti. Le terapie attuate nel manicomio erano incredibilmente moderne. Prevedevano infatti l’accertamento dello stato di salute mentale tramite il colloquio — che oggi è l’analisi — con il paziente: “di mese in mese funzionari del califfo interrogano i malati per accertarsi che siano rinsaviti” e, quando la diagnosi è positiva, vengono lasciati liberi, dopo che è stata loro assegnata una piccola somma di denaro, come elemosina per consentire il ‘reinserimento’ nella società e per far fronte alle prime necessità dopo il ritorno alla vita normale.
Francesco Guicciardini, nel 1512, restò ammirato dall’ospedale di Barcellona, “grande dove vi sono moltissimi infermi in belle e ornate camere, e per quello che potei vedere mi parvono bene tenuti [e dove] nel medesimo spedale si nutriscono e’ bambini che si espongono; ed eziandio vi stanno e’ matti”.
7. BIBLIOGRAFIA
— Maria Antonia Ferrante, “Il concetti di follia nella medicina Islamica”, Seminari di neuroscienze, 2011-2012.
— Michael W., “Majnūn: Il folle nella societa’ Islamica medievale”, ed. Diana E. Immisch, Oxford, Clarendon; New York, Oxford University Press, 1992.
— Giorgio Vercellin, a cura di –, “Il Canone di Avicenna fra Europa e Oriente nel primo Cinquecento”, Utet, 1991.