Il tributo di bambini

I. I GIANNIZZERI

Il termine giannizzero indica un soldato appartenente alla Yeni Çeri, la “nuova milizia” voluta dal sultano Orhan I (1281?-1362) in un momento di espansione dell’impero ottomano, impero multietnico, temutissimo sotto il profilo militare. Anche il figlio di Orhan I, Murad I (1326-1389) continuò la politica di riforma militare intrapresa dal padre garantendone la stabilità.

Si trattava di un corpo di fanteria scelto, fra le altre cose, per la difesa personale del sultano, aveva carattere permanente e riceveva una paga per la propria attività. Esso si andava ad affiancare alla cavalleria, originariamente l’unico corpo militare di questo impero costituito da nomadi.

Quello che più di tutti destava meraviglia era la modalità di reclutamento. Se in un primo momento i giannizzeri erano costituiti dagli schiavi di guerra, successivamente la fanteria veniva alimentata attraverso la pratica detta devsirme, una sorta di leva obbligatoria forzata dei sudditi cristiani dell’ impero.

II. IL TRIBUTO DI BAMBINI: LA DESVIRME

Il termine devsirme intende la “raccolta” o “tributo di bambini”, sistema di reclutamento dei nuovi giannizzeri.

Ogni 4 o 5 anni i giannizzeri in carica perlustravano le province dell’impero ottomano scegliendo i bambini più adatti. In un primo momento l’età stabilita si aggirava tra i 10 e 12 anni, successivamente si sceglievano i ragazzi tra i 17 e 18 anni. Prima di entrare nel corpo dei giannizzeri, i giovani venivano sottoposti ad un duro tirocinio, impiegati come servi presso famiglie contadine turche affinché imparassero tanto la lingua turca quanto ad irrobustire il corpo. Giunti ad una età e ad una preparazione adeguata, venivano portati al cospetto del sultano ed impiegati nei vari corpi. Chi eccelleva per particolari qualità entrava subito nel palazzo imperiale, adibito a vari lavori oltre ad essere istruito.

Il reclutamento si basava su criteri precisi: non dovevano essere scelti figli unici o bambini e ragazzi che rappresentavano l’unica risorsa per la famiglia, ne dovevano essere prelevati solo in un unico villaggio.

Questa esperienza, sicuramente drammatica, dato l’allontanamento forzato dalle famiglie, costituiva la via per alimentare quella forza militare che rappresentò per molto tempo un vanto dell’impero ottomano.

Tuttavia, l’essere presi al servizio del sultano, seppure come schiavi, costituiva una alternativa alla povertà delle famiglie e alla corrispondente mancanza di futuro. Una volta divenuti adulti non era insolito riprendere i contatti con la famiglia.

III. ORGANIZZAZIONE

L’organizzazione dei giannizzeri prevedeva una divisione in tre classi, denominate yayabey, buluklu, seymen/seyban, ulteriormente suddivise in orta, i reggimenti. Verso la fine del sec. XVII erano presenti 196 orta, comandate da un čorbagï con l’aiuto di ufficiali subalterni.

A capo dei giannizzeri vi era un generale denominato Agha.

Ogni orta si distingueva dalle altre per via di particolari denominazioni – seymen, zaghargï, turnagï, solaq – e dal differente vessillo.

Anche il corpo dei giannizzeri aveva un’uniforme. Questa era costituita da indumenti di panno e da una cuffia bianca di lana dal lungo lembo ricadente sulle spalle. Lance, sciabole e pugnali erano le armi in loro dotazione, ma fu l’utilizzo dell’archibugio, arma più moderna, a renderli famosi.

Seppur non fosse a loro precluso di sposarsi, i giannizzeri non si univano in matrimonio. Ma ebbero comunque figli denominati Cologhli (qul-oghlu), un termine indicante il “figlio di schiavo” essendo i giannizzeri gli schiavi del sultano.

La vita dei giannizzeri trascorreva all’interno delle caserme, dislocate tanto a Costantinopoli quanto nelle province.

Inoltre erano legati alla confraternita dei dervisci Bektashi: un derviscio era presente all’interno di ogni compagnia dei giannizzeri, guidandoli spiritualmente.

IV. IL FELICE INCIDENTE

I giannizzeri, dal ‘400 fino al ‘600, furono una delle forze più formidabili e ammirate.

Abituati a vivere insieme nelle caserme, alimentavano e cementavano uno stretto rapporto di fratellanza; mangiavano dallo stesso pentolone, il simbolo di comunità tanto fra loro quanto con il sultano che li manteneva.

Rovesciare il pentolone era la prassi consolidata per indicare, simbolicamente, l’inizio delle rivolte di cui i giannizzeri si fecero promotori, complice il fatto che nel tempo avevano acquisito talmente tanto potere da renderli temibili anche presso il sultano.

Oltretutto, tra le loro mansioni vi era la gestione della sicurezza della città e questo contribuiva a renderli indispensabili, garantendo loro l’esercizio di un potere notevole.

Nel corso del tempo quel duro addestramento che aveva contribuito a renderli potenti venne meno e aumentarono di pari passo le richieste e gli atteggiamenti dispotici ed indisciplinati.

Già il sultano Selim III (1761-1808) aveva cercato di deporre il corpo che rappresentava anche un costo eccessivo per le casse dell’impero. Il tentativo di Selim III non ebbe successo e furono, invece, i giannizzeri stessi a deporlo.

Solo il sultano Mamhud II (1785-1839), soprannominato il Giusto, fautore di una riorganizzazione dell’esercito, riuscì in quello che viene ricordato come il “felice incidente” del 15 giugno 1826 ad avere la meglio su di loro, utilizzando le forze dei cannoni a disposizione e decretandone la fine. La caccia al giannizzero voluta da Mamhud II causò oltre 30.000 morti e l’abolizione della confraternita dei Bektashi.

Per approfondire:

Alessandro Barbero. Il divano di Istanbul, Palermo, 2011

Ettore Rossi, GIANNIZZERI, in Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Enciclopedia Italiana, 1932

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