Correva l’anno 1386 quando, a Falaise in Normandia, una scrofa di circa tre anni, ritenuta responsabile dell’uccisione di un lattante, fu trascinata, vestita con abiti da uomo, da una giumenta sino alla piazza del sobborgo di Guibray. Qui davanti al visconte, Regnaud Rigault, e ad una folla eterogenea composta da abitanti della città e da contadini dei dintorni con i loro maiali, la scrofa fu giustiziata in un modo particolarmente cruento. Il boia le mozzò il grugno e le tagliò una coscia poi, dopo averla agghindata con una maschera a figura umana, la appese per i garretti posteriori ad una forca di legno abbandonandola in tale posizione finchè non sopravvenne la morte. Quello che ai nostri occhi appare incredibile è il fatto che la pena capitale per la scrofa fosse stata decisa in un regolare processo dell’autorità laica durato ben nove giorni durante i quali l’animale fu detenuto in cella con costi dei quali restò traccia negli archivi cittadini.
Quello della scrofa di Falaise è l’episodio più famoso e, soprattutto, meglio documentato, di una serie di procedimenti giudiziari dell’Europa medievale e moderna ove gli imputati furono non esseri umani, ma animali. Animali processati perché in una misura o nell’altra il problema della loro capacità di intendere e di volere era dibattuto dall’uomo medievale: erano esseri imperfetti, d’accordo, ma condividevano con l’uomo molte caratteristiche. E, seguendo tale logica di pensiero, erano responsabili dei propri atti, e quindi andavano giudicati di conseguenza. Al giorno d’oggi le leggi italiane, p.es., prevedono la possibilità di sopprimere degli animali come i cani in casi di manifesta e insanabile pericolosità, ma in ogni caso attribuiscono la responsabilità in caso di misfatti al padrone umano. Nel Medioevo no, in tutti i casi il padrone non era responsabile penalmente per l’animale, e la sua punizione era eventualmente solo indiretta, e consistente nella perdita dello stesso.
I processi sono documentati a partire dal XIII secolo, con ancora una scrofa bruciata viva a Fontenay-aux-Roses per aver divorato un bimbo nel 1266. Gli ultimi casi sono del XVIII secolo, con un’asina fucilata a Clermont-en-Beauvaisis per aver “male accolto” la sua padrona. Sono processi sostanzialmente di tre tipi. Il primo è di tipo prettamente penale, davanti alla giustizia laica, nei confronti di animali colpevoli di aver ucciso o ferito esseri umani. Questi processi sono largamente documentati ed investono nella stragrande maggioranza maiali, probabilmente per il fatto che il maiale era l’animale a maggiore diffusione. Si incontrano tuttavia anche processi nei confronti di cavalli, vacche, tori, cani. La caratteristica principe di tali processi è che l’imputato è chiaramente identificato e può essere abbastanza agevolmente condotto in tribunale o in prigione e in seguito sottoposto all’eventuale pena. Di fatto l’unica cosa che manca rispetto al processo nei confronti di un essere umano è la capacità dell’animale di esprimersi, direttamente o tramite il proprio avvocato difensore. Il secondo tipo, invece, è un processo di tipo completamente diverso, tenuto solitamente di fronte a tribunali ecclesiastici, ove gli imputati sono animali che non possono essere trascinati di fronte alla corte e che sono ritenuti responsabili di diffondere malattie o danneggiare i raccolti: così topi, cavallette, bruchi, lombrichi, lumache, mosche, etc… L’esito del processo è di solito un ordine solenne dell’autorità ecclesiastica di “cessare e desistere”, seguito da minaccia di scomunica (sic !). Tali processi sono estremamente frequenti e sono stati estensivamente studiati soprattutto nelle regioni alpine. La terza casistica, infine, è la più particolare e la meno documentata ed quella che riguarda i delitti di bestialità, ovvero i rapporti sessuali tra uomini e animali. I processi di questo tipo erano a carico di entrambi, uomo e animale, e solitamente si concludevano con pene tremende, con entrambi i colpevoli rinchiusi nello stesso sacco e bruciati, o annegati, sovente insieme agli atti del processo.
La capacità, seppur limitata, di intendere e di volere, dell’animale non era tuttavia universalmente condivisa e parecchie furono le voci che si levarono critiche nei confronti di tali pratiche. Philippe de Beaumanoir, alla fine del’200, afferma che condurre una scrofa in tribunale perché ha ucciso un bambino è giustizia sprecata, perché le bestie non sanno ciò che è male e sono incapaci di comprendere la pena che viene loro inflitta. Tommaso d’Aquino è contrario ai processi fatti agli animali poiché, se anche essi possono riconoscere un certo numero di cose e anche di segni, essi non possono distinguere il bene dal male. Eppure queste opinioni non sono le più diffuse, e anche celebri giuristi come il borgognone Chassenée (1480-1541) rispondono positivamente alle domande circa la legittimità e l’efficacia di tali processi. Bisognerà attendere il trascorrere di più di due secoli d’età moderna perché tali pratiche scompaiano definitivamente.
Per approfondire:
Edward P. Evans, The Criminal Prosecution and Capital Punishment of Animals, Londra, 1906
Michel Pastoureau, Medioevo simbolico (trad.ital.), Bari, 2005