I. L’UOMO
Nuovo Achille, Figlio di Marte e Fulgore in battaglia: Gaspare Sanseverino (1455 ca.-1519) poté vantare questi e altri roboanti epiteti, ma quel che segnò veramente il suo essere fu il soprannome “Fracasso”, conferitogli dai soldati fin dall’adolescenza, proprio per la ferocia inaudita con cui sgominava i nemici in battaglia.
Secondogenito dello stimatissimo condottiero Roberto Sanseverino (1418-1487), Gaspare nacque – si può dire – con la spada in mano. Quando fa la sua apparizione nelle cronache, circa ventenne, è già famoso, oltre che come guerriero, quale giostratore impareggiabile. Marin Sanudo ci dice che “era da li nemici temuto per il terrore del nome“, ma Sigismondo de’ Conti lo loda anche per “la straordinaria bellezza del corpo“.
Roberto aveva pressappoco una trentina di figli, eppure nessuno amò mai quanto amò Gaspare, e si capisce bene perché: come lui iracondo, distruttivo e irruento, come lui inarrestabile, lo inorgogliva col clamore delle proprie imprese. Basti pensare che il primogenito, Gian Francesco (1450 ca.-1501), ne fu a tal punto invidioso, che abbandonò la compagnia del padre per mettersi al servizio del suo acerrimo nemico.
Ma questa sua ira, pronta a esplodere in maniera catastrofica, non sempre veniva apprezzata, tant’è che il giudizio di Luigi XII fu: “è un pazzo“. Sono noti i comici battibecchi con Caterina Sforza, che non riusciva a gestire la sua permalosità; note pure le liti e gli insulti rivolti a Francesco Gonzaga, al duca Federico di Sassonia e a molti altri. Meno nota è una tragica vicenda, raccontataci da un cronista dell’epoca: soggetto, come tutti, alla passione amorosa, Fracasso si sarebbe macchiato dell’omicidio di una nobildonna da lui amata, la quale avrebbe ferito in un impeto di rabbia quando, volendo baciarla per forza, la donna gli batté un secchio d’acqua addosso. Se l’episodio sia vero è impossibile dirlo: Ugo Caleffini, spesso “frottoliere“, è l’unico a riportarlo. Certo è che, ben lungi dal disprezzare le donne, Fracasso si erse a loro paladino durante il sacco di Mordano del 1494, quando si impegnò in prima persona a salvare numerose donne dalla furia dei francesi (peraltro suoi alleati), i quali violentavano e tagliavano il naso a molte. In questo senso si può dire che fosse di molto buon cuore.
II. IL FERIMENTO
La sua fama è però legata anche al drammatico ferimento del dicembre 1485: passato a servire lo Stato Pontificio nella guerra dei baroni contro il re di Napoli, Roberto affidò al figlio prediletto l’attacco del Ponte Nomentano, spronandolo “ch’ei gli dimostrasse la madre in generandolo non l’avere ingannato“. Il trentenne Fracasso non perse tempo: messosi un’arma alle mani, incominciò a eccitare i soldati e per primo si gettò all’assalto del ponte. La battaglia fu cruentissima, e mentre, “trasportato da soverchio ardire e caldo di gioventù“, combatteva in testa ai propri uomini, fu raggiunto da uno scoppio di archibugio che gli trapassò le guance da lato a lato.
Il colpo fu tremendo: “poco men che morto” venne trasportato a Roma, onde ricevere le dovute cure, ma si avevano ben poche speranze di sopravvivenza. Si può immaginare lo strazio del padre Roberto: misero conforto fu per lui quando, conquistato il Ponte, i soldati fecero a pezzi la guarnigione e tagliarono le mani al bombardiere responsabile, “come se, spargendo il sangue di coloro, la ferita del figliuolo guarisse“.
Miracolosamente Fracasso si rimise, anche piuttosto in fretta, ma “ebbe rotti quattro denti, e la lingua guasta in modo, che articolar non potea una parola“. Col tempo recuperò la loquela, sebbene il Corio ci dica che “di continuo restò scilinguato [balbuziente], né altro che cibi liquidi poteva inghiottire“. Nel 1487, a un anno esatto dal ferimento, partecipò all’ennesima giostra a Bologna: in questa occasione il duca Ercole d’Este lo descrive “gagliardo de la persona come mai“, sebbene costretto, per contenere la bava, a portare talora in bocca delle pezze. Ancora nel 1498 l’oratore mantovano racconta che Fracasso gli fece “uno longo discorso […] el quale non mi basta l’animo de saperlo mettere in scripto […] perché non ho in pratica la lingua sua“: evidentemente non dovette capirci molto.
L’evento venne additato da alcuni come una sorta di punizione divina per il suo vizio di bestemmiare, per cui sarebbe stato punito con la perdita della propria bellezza: «Fracasso biastemava tutto il cielo: | ben che havesse la lingua mal disposta, | nel biastemar non se incapava un pelo; | […] Costui non era anchora castigato, | che per questo peccato tristo e rio | una bombarda un giorno gli ebe dato | nel viso, che era bello quanto un dio, | e l’hebbe tutto quanto transformato, | e lui pur sempre volse biastemare, | forsi che Dio l’ha voluto impagare!» (Ercole Cinzio Rinucci, Historia nova de la Rotta e presa del Moro etc).
Abbiamo infatti un unico ritratto di lui: una miniatura di pessima fattura, nella quale una barba rossiccia nasconde opportunamente quella “faciei deformitate” (deformità della faccia) cui accenna il padre Roberto. Molto commoventi le parole di quest’ultimo al pontefice Innocenzo VIII, nella lettera in cui, rammentandogli tutti i sacrifici e le sofferenze patite in suo servizio, gli fa pesare il suo voltafaccia: «[…] me condussi al Ponte Lamentano con le bombarde, occupato da li inimici, et quello doppoi battaglia da mano recuperai, ma costò troppo caro a Gaspare, alias Frachasso, mio figliolo, di che ne prexi quel dolore, che non me abandonerà sino a la morte».
III. IL DECLINO
La morte di Roberto sopravvenne poco dopo, nel 1487, in combattimento. La Fortuna di Fracasso, indissolubilmente legata a quella paterna, morì con lui. Iniziava da qui il suo lento e inesorabile declino: messo in secondo piano dai veneziani, passò a servire Milano, dove dovette però vivere all’ombra del più bello (e imbelle) fratello minore Galeazzo. Col duca non andava d’accordo, assai più s’intendeva con la duchessa, e fu detto che, proprio per non avergli dato fiducia, Ludovico il Moro (1452-1508) perdette lo Stato: perché non volle accettare i consigli di Fracasso, che lo supplicava di lasciarlo combattere, assicurandogli vittoria contro i nemici. Dopo la disfatta del Moro ricominciarono le sue peregrinazioni: ramingo, sempre senza un soldo in tasca, tentò vanamente di farsi riassumere da Venezia. Morì nel 1519 a Roma, nella più assoluta miseria. Intanto però era già divenuto leggenda.
IV. LE FONTI
– Camillo Porzio, La congiura dei baroni del regno di Napoli contra il re Ferdinando I, Biblioteca Universale Rizzoli, 1965 [1565], p. 118-119;
– Sigismondo dei Conti, Le Storie de suoi tempi, Tipografia Barbera, 1883;
– Bernardino Corio, L’Historia di Milano, 1565;
– Bernardino Zambotti, Diario Ferrarese dall’anno 1476 sino al 1504, in Giuseppe Pardi (a cura di), Rerum italicarum scriptores;
– Cronache milanesi, Volume 1, Gio. Pietro Vieusseux, 1842, pp. 256-242;
– Opere di Marino Sanudo: Commentarii della guerra di Ferrara, Le vite dei dogi (1474-1494), i Diarii;
– Cronaca di anonimo veronese, 1446-1488, 1915;
– Ugo Caleffini, Croniche (1471-1494), in Serie Monumenti, XVIII, Deputazione provinciale ferrarese di storia patria.
– Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca (1495-1498), Ministero per i beni e le attività culturali, 2003.