Lungo tutto l’arco di tempo che va dal Medioevo al Rinascimento, la società occidentale si ritagliò dei periodi dell’anno, esclusi dal tempo ordinario, in cui le aspirazioni ad una realtà diversa, più libera da convenzioni sociali, leggi e gerarchie, si sostituirono all’ordinarietà della vita quotidiana. Si trattava di una pazzia collettiva anche se temporalmente circoscritta, una sregolatezza riconosciuta, ma controllata. In alcuni testi dell’epoca, queste manifestazioni venivano definite indispensabili per mantenere una sorta di equilibrio Nacquero così i carnevali e le cosiddette “festa stultorum”.
1. LA FESTA DEGLI STOLTI: LE ORIGINI
La festa dei folli si svolgeva ogni anno nei giorni 26, 27 e 28 dicembre, rispettivamente dedicati a Santo Stefano, a San Giovanni e al Giorno degli Innocenti, con riferimento alla Strage degli innocenti. Veniva anche chiamata Festa dell’asino in quanto lo scopo era onorare l’asino che trasportò Gesù quando entrò a Gerusalemme.
Era una festa in maschera a cui partecipava anche il clero. Molti storici vi ravvisano l’origine medievale del teatro. Era molto sentita in Europa e in molte città del nord della Francia, dove era detta fête des Fous o fête des Innocents. Perdurò dal XII secolo fino al XVII secolo.
Forse derivate dai Saturnali, in queste feste avveniva un sovvertimento ironico dell’ordine costituito. I sevitori diventavano padroni e i signori servi, i vescovi bambini e i bambini vescovi. Questi divertimenti di solito avevano come teatro la chiesa e come attori gli ecclesiastici stessi.
2. LA FESTA DEGLI STOLTI: IL VESCOVO BAMBINO
La festa dava luogo a cerimonie estremamente bizzarre e profane. I sacerdoti, mascherati nel modo più folle, danzavano mentre entravano nel coro cantando canti osceni. Diaconi e suddiaconi mangiavano sanguinacci e salsicce sull’altare, giocavano a carte e dadi e bruciavano vecchie pantofole negli incensieri. Si trovano resoconti dell’elezione di un vescovo bambino, detto “Episcopus stultorum“, che aveva il compito di celebrare messa: il culmine della performance era terminare l’omelia con un raglio.
La primissima condanna della festa fu proclamata intorno al 1198 su richiesta di Odon de Sully. Il Concilio di Basilea del 1431 aprì la strada al divieto assoluto avvenuto nel 31 dicembre 1519.
3. IL CARNEVALE: LE ORIGINI
Le prime testimonianze in Italia dell’uso del vocabolo “carnevale”, detto anche dialettalmente “carnevalo”, si trovano nei testi del giullare Matazone da Caligano (XIII Secolo), autore dell’opera satirica “Detto dei Villani”, e del novelliere e commerciante Giovanni Sercambi (XIV Secolo).
Il carnevale di Putignano, in Puglia, si considera il carnevale più antico simile a quello dei giorni nostri: le sue origini risalgono al 1394.
4. IL CARNEVALE: MARTEDÌ GRASSO
Il Martedì Grasso rappresentava il culmine dei festeggiamenti con sfilate e cortei di maschere, banchetti, canti e balli fino alla mezzanotte, ovvero fino all’inizio della Quaresima. In questa giornata venivano consumati tutti i cibi prelibati che durante la Quaresima non potevano essere mangiati, come la carne infatti il termine “carnevale” deriva dal latino “carnem levare”, cioè “eliminare carne”, poiché indicava il banchetto che si teneva l’ultimo giorno di carnevale, il Martedì Grasso, il giorno prima del periodo di astinenza e digiuno religioso. L’usanza di osservare la Quaresima è testimoniata dopo il concilio di Nicea del 325 d. C..
5. LO “CHARIVARI“
Una Miniatura del XIV Secolo, tratta dal “Roman de Fauvel”, rappresenta uno “charivari”, come era detto in francese: in italiano “capramarito” o “chiavramarito” ovvero una manifestazione di protesta plateale, di rabbia o irrisione collettiva rurale verso i responsabili di atti ritenuti offensivi verso la morale comune.
I partecipanti erano travestiti e mascherati e utilizzavano oggetti per provocare chiasso presso l’abitazione della persona alla quale la protesta era indirizzata.
6. LA MASCHERA
Nelle antiche feste pagane si utilizzavano le maschere per allontanare gli spiriti maligni. Le usavano i Romani nei Saturnalia e gli Etruschi in riti affini, ma poco conosciuti. La maschera rituale etrusca era il Phersu: rappresentava un uomo con il volto paonazzo, quasi demoniaco, una folta e lunga barba nera, il berretto a punta di colore rossiccio con dei decori sulla parte anteriore ed un corto vestito; si trova in scene rituali legate allo sport ed alla danza. Più andiamo avanti con i secoli e più la maschera perde il suo valore rituale e diventa mero divertimento del popolo.
Il più antico documento riguardante l’utilizzo delle maschere carnascialesche in Italia si trova a Venezia ed è datato il 2 Maggio del 1268: in questo documento si enuncia il divieto da parte degli uomini mascherati di praticare il gioco delle “ova”. Il gioco consisteva nel lanciare uova riempite di acqua di rose contro le dame che passeggiavano beatamente nelle calli. Adesso li chiameremmo prosaicamente gavettoni.
Le maschere italiane nacquero dunque a Venezia e si diffusero poi in Italia nel XIV secolo; queste erano usate per diversi scopi, oltre al divertimento e alla burla erano utili anche per nascondersi agli occhi della gente. Da Venezia si diffusero successivamente in tutta Italia e poi in Europa e diventarono le protagoniste del Teatro dell’Arte.
L’uso del travestimento permetteva di abbattere le barriere sociali date dalla ricchezza e dal rango.
Nei primi anni del Trecento furono promulgate leggi che tentavano di frenare l’inarrestabile decadimento dei costumi dei veneziani del tempo; era proibito indossare la maschera se non fosse carnevale o nei luoghi di culto, questo perché spesso la maschera era usata per celare la propria identità e per occuparsi di affari occulti o portare avanti relazioni adulterine.
7. LE FONTI
Michel Foucault, “La folie et la fête“, 1963.
M.G. Carriero e Nicola Zito, “Masquerade. L’universo dietro la maschera. Percorsi tra arte e antropologia“.