Cristianesimo e teologia – Intermezzo 2

1. Il manicheismo: premessa.

Nella storia del cristianesimo, si inserisce quella di un altro credo: il manicheismo, così definito per esser stato fondato, nel III secolo, da un predicatore mesopotamico, conosciuto come Mānī (216-274/277). Con il tempo, tale confessione si sarebbe largamente diffusa, con comunità in Cina, in Asia centrale, nel subcontinente indiano, in Africa settentrionale, in Grecia, in Italia, in Gallia, in Britannia, e forse anche nella penisola iberica. Al credo in argomento avrebbe aderito sant’Agostino d’Ippona (354-430), che l’avrebbe tuttavia confutato dopo la sua conversione al cristianesimo. Altri oppositori del manicheismo furono Alessandro di Licopoli (moderna Asyūṭ, Egitto), un filosofo e scrittore greco vissuto a cavallo fra il III ed il IV secolo, il papa san Milziade (†314) e soprattutto san Leone I Magno (†461). Per queste ragioni, il manicheismo stesso è stato a lungo ritenuto un’eresia cristiana, per altro simile, sotto alcuni aspetti, allo gnosticismo. Tuttavia, recenti studi su opere manichee ritrovate in Asia ed in Egitto hanno dimostrato, ormai definitivamente, il carattere autonomo della confessione in parola rispetto al cristianesimo. Si trattava, in buona sostanza, di due religioni rivali: la dottrina di Cristo aveva lo scopo di indicare all’uomo il bisogno di prendere coscienza della sua esistenza e delle sue responsabilità; quella di Mānī, invece, riteneva – come si vedrà meglio fra poco – che la morale umana fosse soltanto il riflesso di un conflitto esterno alla vita: la lotta fra il bene ed il male.

In Occidente, il credo nato in Mesopotamia sarebbe pressoché scomparso sul finire del V secolo, per quanto opinioni manichee sarebbero riemerse, fra il VII ed il XIII, nel paulicianesimo, nel bogomilismo e nel catarismo. In Oriente, invece, sarebbe sopravvissuto più a lungo.

2. Mānī.

Nacque nel 216 in un villaggio non distante da Seleucia al Tigri (attuale Tell Omar, Iraq). In giovane età, lesse alcuni apocrifi dell’Antico e del Nuovo Testamento, le Lettere di Paolo ed i quattro Vangeli, oggi canonici, nella silloge – nota come Διὰ τεσσάρων Εὐαγγέλιον (Dià tessaron Euangèlion), attraverso i quattro Vangeli – composta anni prima dall’apologeta Taziano il Siro (†180?). Attese le differenze fra le Novelle, la mescolanza aveva dato origine ad un nuovo racconto, diverso dai quattro originali: tuttavia, sarebbe stato usato dai cristiani di lingua siriaca fino al V secolo, quando furono tradotti i Vangeli separati.

Di là della sua cultura, l’area in cui Mānī era nato costituiva crocevia di varie fedi, fra cui il cristianesimo, ma anche di dottrine eterodosse. Così, egli conobbe elementi che, di lì a poco, sarebbero confluiti nella sua religione. Questa era già delineata nelle sue linee principali quando il mesopotamico, intorno al 240, fece un viaggio verso la penisola indiana, appunto per diffondere il suo credo. Alcuni anni prima – segnatamente nel 224 – Ardashir I (†241), dopo aver sconfitto i Parti, aveva iniziato la dinastia sasanide. Rientrato in patria nel 241 o 242, Mānī fu ben accolto dal nuovo shahanshah (re dei re) Shāhpur (o Sapore) I (†272), che, per altro, ne apprezzò la dialettica nel giorno della sua incoronazione (20 marzo 242). Negli anni seguenti, lo stesso mesopotamico portò le sue prediche in tutto l’impero. Forse, percorse anche l’Egitto e l’Asia centrale, ed è possibile si sia spinto fino alla Cina ed al Tibet. Di certo, tornò in area sasanide dopo il decesso di Sapore I, cui era succeduto il terzogenito Ōhrmazd (oppure Ormisda) I. Questi manifestò simpatia nei riguardi di Mānī, ma spirò nel 273, dopo un anno o poco più di regno. Al trono salì il fratello Bahrām I (†276/277), che presto cadde sotto l’influenza dei Magi zoroastriani. Questi ultimi – con il gran sacerdote Kartir Hangirpe in testa – intravedevano nella predicazione del mesopotamico una grave minaccia per la loro religione, che aveva ormai ottenuto forte rilievo nell’impero sasanide. Così, fra il 274 ed il 276 o 277, comunque durante il regno di Bahrām I, lo stesso Mānī fu arrestato e sottoposto a torture che ne provocarono la morte.

3. Dottrina manichea.

Il manicheismo elaborava l’intera realtà esistente come espressione del dualismo fra il Bene ed il Male, e quindi della continua lotta fra essi. Prima della nascita del mondo sensibile, esistevano già due principi coeterni: la Luce e le Tenebre. La creazione del mondo materiale e della prima coppia umana – Adamo ed Eva – era il risultato della guerra fra quelle due potenze, che aveva coinvolto varie entità, celesti e demoniache. L’uomo, il cui corpo era stato creato dalle forze del Male, aveva tuttavia conservato delle particelle di Luce. Per risvegliare la consapevolezza di esse, e quindi il desiderio di salvezza, le forze del Cielo avevano inviato una loro manifestazione: Gesù. Quest’ultimo, in conseguenza, non poteva aver sofferto sulla Croce. Opinione palesemente docetica, che Mānī aveva ereditato dalla gnosi.

4. Organizzazione della comunità manichea.

Per quanto accennato, incarico della fede era quello di liberare le particelle di Luce (divine) imprigionate nella materia (tenebrosa). Per conseguire questo scopo, era necessario seguire alcune pratiche ascetiche, accuratamente codificate, e sottostare ad alcuni obblighi, diversi, almeno in parte, a seconda della categoria cui si apparteneva. La comunità manichea, infatti, era divisa fra eletti e uditori (o catecumeni): questi ultimi, a differenza dei primi, non avevano preso i voti e rappresentavano il grado più basso della gerarchia, che comprendeva anche dodici apostoli (o maestri), settantadue vescovi (o diaconi) e trecentosessanta presbiteri (o intendenti). Molti termini, evidentemente, erano stati mutuati dal cristianesimo. Al vertice della piramide stava un ἀρχηγός (archegòs), ossia un capo, considerato il successore di Mānī. Gli eletti avevano l’obbligo di evitare la blasfemia e lo spergiuro, ma anche di nutrirsi di carni: gli animali, una volta morti, erano soltanto materia abbandonata dalla Luce. Inoltre, dovevano astenersi dall’atto sessuale (e quindi dalla procreazione) e vivere in povertà. Dal canto loro, gli uditori erano vincolati a fornire cibo agli eletti, ma anche ad osservare molteplici proibizioni, fra cui quella di adorare idoli; di seguire falsi profeti; di avere più di un coniuge o commettere adulterio; di bestemmiare, mentire o rubare. Il culto, celebrato in templi modesti, comprendeva frequenti preghiere, digiuni, musica, canti, feste: fra queste ultime, la Βῆμα (Bema), officiata a commemorazione della morte di Mānī. Quanto al riconoscimento dei peccati, gli eletti si confessavano fra loro, in forma privata, per poi provvedere ad ascoltare ed assolvere pubblicamente gli uditori. La distinzione fra eletti ed uditori aveva anche un fine escatologico. L’anima dei primi si sarebbe subito ricongiunta al mondo della Luce, mentre quella dei secondi sarebbe stata costretta a varie reincarnazioni, fino alla nascita di un perfetto. Naturalmente, i peccatori – i non manichei – erano condannati alla perdizione eterna. Tale escatologia, per altro, era soltanto una diapositiva dell’enorme processo di redenzione degli elementi luminosi. Quando le ultime parti della Luce fossero state liberate, ci sarebbe stato l’atto finale: dopo una lunga esplosione, l’intera materia tenebrosa, formante un unico βῶλος (bolos), ossia un’unica massa indistinta, sarebbe stata per sempre separata dalla Luce e chiusa definitivamente nell’abisso.

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