Cristianesimo e teologia – Capitolo VIII

1. I lapsi.

Nel capitolo a questo precedente, si è accennato ai lapsi, termine latino corrispondente al greco παραπεπτωκότες (parapeptokotes) e traducibile come caduti, che indicava i cristiani che avevano abiurato la fede per sfuggire alle persecuzioni. Fra costoro, per altro, si distinguevano i sacrificati, che avevano effettuato un sacrificio agli dei, dai thurificati, che avevano soltanto bruciato qualche granello d’incenso dinanzi agli idoli. A questi, durante le repressioni dioclezianee, si sarebbero aggiunti i traditores, vale a dire coloro, soprattutto ecclesiastici, che avevano consegnato alle autorità pagane copie delle Scritture.

Sulle regole della riconciliazione di tali apostati si dibattè nella seconda metà del III secolo, ma anche in seguito. Un sinodo riunito a Cartagine nel 251, sotto la presidenza di san Cipriano (†258), accolse la linea morbida dello stesso vescovo, stabilendo che i lapsi potevano essere riammessi nella comunità cristiana dopo un periodo di penitenza. Questa tendenza tollerante, sposata anche dal pontefice, san Cornelio (†253), con il tempo sarebbe prevalsa, ma a Roma ed in Africa ci furono dei rigoristi, che diedero origine a vari scismi. Rinviando a tempo debito il discorso su quello meleziano e sull’altro donatista, occorsi entrambi nel IV secolo, l’attenzione si sofferma ora su Novaziano (†258), il secondo antipapa della storia.

2. Novaziano.

Nato intorno al 200, probabilmente a Roma, fu nominato presbitero da papa san Fabiano (†250), nonostante l’opposizione del clero. Verosimilmente, questo provava un certo fastidio, se non invidia, nei confronti di uomo di notevole personalità e cultura molto maggiore rispetto a quella, di modesto livello, mediamente posseduta dagli ecclesiastici dell’epoca. Dopo il martirio del pontefice, la comunità di Roma decise di aspettare tempi migliori prima di dargli un successore, e nelle more il governo della Chiesa fu assunto dal Collegio dei presbiteri. A questo scrisse Cipriano, per chiedere lumi e conforto sui lapsi, i quali, a seguito dell’abiura, richiedevano, subito dopo, di essere riammessi nella comunità. Tuttavia, sia i presbiteri romani sia lo stesso vescovo di Cartagine concordarono sull’opportunità di respingere la pretesa, rimandando la soluzione del caso al momento in cui la persecuzione imperiale sarebbe terminata. Questa, in realtà, aveva perso vigore, almeno nell’Urbe, già qualche mese prima della morte di Decio, occorsa il 1° luglio del 251. Pertanto, agli inizi del medesimo anno la comunità fu in condizione di poter dare un successore a Fabiano. L’elezione del nuovo papa, però, fu molto avversata, poiché duramente contesa fra l’ambizioso Novaziano, rigorista nei confronti dei lapsi, e un altro presbitero, il più moderato e tollerante Cornelio. Il primo, in sostanza, aspirava ad una Chiesa perfetta, composta da pochi eletti. Il secondo, invece, mirava ad una più globale, clemente verso debolezze che una penitenza poteva sanare. Fu Cornelio ad ottenere la maggioranza dei voti, e quindi ad assumere il ministero petrino, ma Novaziano si fece consacrare a sua volta da tre presuli. Fu lo scisma, e sebbene quasi tutti i vescovi della cristianità sposassero la linea morbida di Cornelio, ce ne furono tuttavia alcuni che si schierarono su quella rigida di Novaziano: fra questi, Fabio di Antiochia (†251/256) e Marciano di Arelate (odierna Arles, Francia).

Non si possiedono altre notizie sulla vita di Novaziano, se non l’anno del suo decesso, il 258, probabilmente per martirio. È certo, però, che lo scisma non si esaurì dopo la morte del suo iniziatore e che si diffuse ben oltre i confini dell’Urbe, sia in Oriente sia in Occidente. Sarebbe rimasto in vita ancora nel V secolo, a riprova delle sue radici ideologiche. L’immagine di una Chiesa di perfetti, inevitabilmente ristretta di numero ed intransigente verso i compromessi, si sarebbe presentata ad alcuni fedeli come un ideale da seguire, anche a costo di doversi separare dai tantissimi cristiani seguaci della Chiesa cattolica.

3. La teologia di Novaziano.

La principale opera di Novaziano è il De trinitate. Titolo probabilmente assegnato molti secoli dopo la morte dell’autore, atteso che in essa mai compare il termine trinitas, già impiegato da Tertulliano (†235/240), i cui scritti lo stesso Novaziano certamente conosceva. Da questi, infatti, egli riprese il vocabolo persona, almeno con riferimento al Padre ed al Figlio.

Il presbitero o l’antipapa – l’epoca di stesura del De trinitate è incerta – è molto brillante nei passi in cui polemizza con gli adozionisti e con i modalisti, dimostrando contro i primi la reale divinità di Cristo, e contro i secondi la sussistenza personale del Figlio medesimo, in quanto Dio, distinta da quella del Padre. Novaziano, invece, incorre in gravi errori quando, per voler provare la distinzione fra le persone, enfatizza l’inferiorità di Cristo rispetto al Padre: «perciò, dato che [il Figlio] riceve la santificazione dal Padre, è inferiore al Padre, e per conseguenza, in quanto è inferiore al Padre, egli non è il Padre ma il Figlio». Inoltre, lo stesso autore del De trinitate incontrò difficoltà nello spiegare come Padre e Figlio, ancorché ben differenziati, potessero costituire un solo Dio. Interpretò la frase «Io e il Padre siamo una cosa sola», riportata nel Vangelo di Giovanni, provando a spiegare tale unum sulla scorta della concordia: in altri termini, l’unità fra Padre e Figlio, e per la quale costituivano un solo Dio, era dinamica ed amorevole. Una sorta di unità nel volere e nell’operare. Concetto debole, che Novaziano non precisò quando scrisse: «unico Dio si dimostra il Padre vero ed eterno, da cui solo viene emanata [la] potenza della divinità, che concessa e diretta anche sul Figlio, di nuovo ritorna al Padre in forza della sottomissione del Figlio». Una sorta di circolazione della vita divina che si trasferiva dal Padre al Figlio per poi tornare dal secondo al primo, oltre che una conferma del subordinazionismo dello scrittore. Quanto allo Spirito Santo, il teologo in parola gli dedicò soltanto un breve capitolo, in cui si limitò a delinearne l’attività santificatrice svolta nell’ambito della Chiesa. In più, mai lo definì persona, a differenza di quanto fece con le altre due, né mai lo incluse in una visione globale realmente trinitaria della divinità.

4. Uno sguardo sull’oggi: la questione novazianea. Cenni sul martirologio geronimiano.

Nel XX secolo, nella città di Roma, durante alcuni lavori, è stato rinvenuto un sepolcro sul quale è ben leggibile la scritta «Novatiano beatissimo marturi Gaudentius diaconus fecit», ossia «il diacono Gaudenzio fece al beatissimo martire Novaziano». Tale iscrizione risale certamente al IV secolo, ma gli esperti sono divisi sull’identificazione della persona che fu sepolta in quel luogo. La maggioranza ritiene si tratti proprio dell’antipapa, che dunque sarebbe realmente deceduto per martirio. Altri, invece, sostengono si tratti di un romano ucciso durante la persecuzione di Diocleziano (244-313), ricordato nel cosiddetto martirologio geronimiano.

Per inciso, quest’ultimo rappresenta il più antico catalogo di martiri che sia sopravvissuto, ed è così definito per esser stato a lungo attribuito, a torto, a san Gerolamo (347-420). In realtà, l’autore fu un anonimo del V secolo, il quale utilizzò come fonti un martirologio siriaco ed un altro africano. Nel corso del tempo, il catalogo – che ebbe grande diffusione nell’Alto Medioevo – ha fatto nascere notevoli problemi critici, ma resta comunque un documento primario per la storia della Chiesa. Tornando al dibattito, a favore della seconda tesi poc’anzi richiamata sta il fatto che l’iscrizione non riporta la carica ecclesiastica ricoperta dal Novaziano di cui si è trattato nel presente capitolo. Gli altri studiosi, invece, ricordano che papa Innocenzo I (†417), durante il suo ministero, iniziato nel 401, ordinò la requisizione degli edifici di culto e delle necropoli appartenenti ai seguaci dell’antipapa. Questa disposizione avrebbe condotto ad una sorta di damnatio memoriae del sepolcro scoperto nel Novecento, e spiegherebbe la ragione per cui nelle fonti antiche non ve n’è traccia.

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