1. Biografia
Ambrogio nacque intorno al 330 ad Augusta Treverorum (moderna Treviri, Germania), in una nobile famiglia romana, da diverse generazioni convertita al cristianesimo. Rimasto orfano di padre, si trasferì a Roma insieme alla madre e ai suoi due fratelli, i santi Satiro (†378) e Marcellina (†400), ed in tale città si preparò a percorrere il 𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 ℎ𝑜𝑛𝑜𝑟𝑢𝑚 delle pubbliche magistrature. Verso il 372, grazie al sostegno dell’influente politico Sesto Petronio Probo (328-390), fu nominato governatore 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑙𝑎𝑟𝑖𝑠 dell’Italia Annonaria – vicariato sorto con la riforma costantiniana – per la provincia 𝐴𝑒𝑚𝑖𝑙𝑖𝑎 𝑒𝑡 𝐿𝑖𝑔𝑢𝑟𝑖𝑎, con sede a Milano. All’epoca, metropolita di questa città era il filoariano Aussenzio, e durante il suo episcopato, iniziato nel 335, la parte ortodossa aveva subito varie prevaricazioni. Alla morte di quell’ecclesiastico, occorsa nel 374, esplose un conflitto fra gli stessi ortodossi e gli eretici, con ciascun partito che pretendeva un nuovo presule aderente alla sua dottrina. Ambrogio, che per doveri d’ufficio interveniva alle riunioni, fu egli stesso eletto vescovo per acclamazione, sebbene fosse un laico, per altro non ancora battezzato. Tale elezione, in realtà, era contraria ai canoni che vietavano l’elevazione di laici all’episcopato: tuttavia, essa fu probabilmente determinata dall’entusiasmo del popolo per il suo governatore. Ambrogio provò a sottrarsi all’inatteso incarico, ma dovette cedere di fronte all’espresso comando dell’imperatore. In breve lasso di tempo, ricevette il battesimo, gli ordini ed infine la consacrazione episcopale. Era il 7 dicembre 374. In seguito, il vescovo partecipò attivamente a diverse vicende politiche e religiose del suo tempo, esercitando notevole influenza in virtù di un’autorità, morale e religiosa, di cui egli si riteneva in tutta coscienza come il depositario autorizzato da Dio. Morì a Milano il 4 aprile 397. Nel 1298, è stato proclamato Dottore della Chiesa.
2. Attività politica e religiosa
L’autorità di cui il vescovo di Milano godette presso gli imperatori della sua epoca – prima Graziano (359-383), poi Valentiniano II (371-395) e Teodosio I (347-395) – fu diretta a garantire l’assunzione di rigorose misure contro i culti pagani, a togliere agli eretici il favore del potere civile ed a restaurare la pace nella Chiesa. Proprio con Graziano, la legislazione assunse quell’aspetto definitivamente ostile agli antichi culti romani, che raggiunse l’apice con un provvedimento, nel 382, con cui si impose la rimozione della statua della Vittoria dalla Curia di Roma, voluta anni prima da Flavio Giuliano (†363). Tale editto determinò vivaci rimostranze da parte dei senatori pagani, ma frattanto Graziano fu assassinato a Lugdunum (attuale Lione, Francia) da un soldato delle sue truppe, che ormai stavano disertando per unirsi all’usurpatore Magno Massimo (†388), che diventava sovrano della Gallia, lasciando l’Italia a Valentiniano II. A quest’ultimo, Quinto Aurelio Simmaco (†403), prefetto dell’Urbe, indirizzò una forbita difesa dei culti tradizionali, generando una forte impressione nel circolo imperiale. Ambrogio reagì prima con una veemente epistola al sovrano, poi con una minuziosa confutazione dello scritto di Simmaco. Il provvedimento di Graziano fu confermato, ma la questione proseguì ancora per qualche anno, finché non fu risolta da Teodosio in favore della parte ortodossa. Più in particolare, il prefetto di Roma domandò una tolleranza per i culti patri, di modo che «la religione romana non fosse messa fuori dal diritto romano» e concluse la difesa rammentando che l’impero poteva incorrere in gravi sciagure se gli dèi fossero stati completamente rinnegati. La replica del vescovo milanese fu brillantissima. Al paganesimo che supplicava comprensione, egli rinfacciò la sua intolleranza, nel passato, verso i fedeli in Dio. Inoltre, Ambrogio giustificò la confisca dei beni delle istituzioni religiose pagane sostenendo che la Chiesa cristiana non desiderava proprietà temporali, poiché quanto essa possedeva apparteneva ai poveri. Soprattutto, lo stesso metropolita rammentò a Valentiniano II i suoi doveri di fedele, minacciandolo di incorrere in sacrilegio se avesse accondisceso all’istanza di Simmaco. Tutto il programma politico-religioso della Chiesa medievale si trova già in germe nelle parole del metropolita di Milano.
Quest’ultimo, fra il 383 ed il 385 (o forse poco oltre), si recò per due volte in missione diplomatica presso Magno Massimo. Lo scopo, in entrambe le circostanze, era convincere l’usurpatore a non invadere l’Italia, lasciandola al giovane Valentiniano II sotto la tutela della madre Giustina (†388). Il fine non fu raggiunto: nell’estate 387, Massimo valicò le Alpi. Tuttavia, di lì a poco giunse Teodosio dall’Oriente, sconfisse l’usurpatore nella battaglia della Sava (388) e subito dopo lo lasciò trucidare dai soldati ad Aquileia, ove lo stesso Massimo aveva invano provato a rifugiarsi.
Nonostante i servigi resi all’imperatore, il vescovo, nel 385 e 386, dovette battagliare con la corte che appoggiava il movimento filoariano. Giustina, in particolare, guardava ancora con favore alla formula di Niké, sottoscritta nel concilio di Ariminum (moderna Rimini) del 360 (Figlio simile al Padre). Nel corso di quei due anni, vari provvedimenti sovrani ordinarono che alcuni edifici di culto fossero consegnati agli eretici. L’energico rifiuto del metropolita provocò la reazione del popolo a lui fedele. Le chiese si riempirono di persone che vi si accamparono per giorni, e non servirono gli inviti, le minacce di far intervenire le truppe e i vari arresti a vincerne la resistenza. Ambrogio intrattenne la moltitudine leggendo e commentando passi delle Scritture, o invitandola a cantare inni e salmi, a cori alternati. Tale usanza era già in voga in Oriente, e proprio da allora iniziò a diventare comune in Occidente. Il vescovo ebbe successo, con Valentiniano II che alla fine cedette. Le chiese rimasero in possesso degli ortodossi, senza concessione di taluna di esse ai filoariani.
Quanto ai rapporti di Ambrogio con Teodosio, questi furono di reciproci stima e rispetto. Nondimeno, occorsero due circostanze in cui il primo censurò il secondo, domandando riparazioni. A Callinico (attuale al-Raqqa, Siria), erano esplosi dei disordini durante i quali i cittadini, istigati dal presule locale, avevano dato alle fiamme una sinagoga. L’imperatore, quindi, ordinò la punizione dei rei e che l’edificio fosse ricostruito a spese proprio di quell’ecclesiastico. Al metropolita milanese, tale provvedimento sembrò offensivo nei confronti della Chiesa ortodossa. Così, in un’epistola presentò le sue rimostranze al sovrano, fra l’altro qualificando come sacrilego il suo provvedimento: il patrimonio cristiano (del vescovo di Callinico) non poteva essere impiegato per riedificare una sinagoga. Sulle prime, Teodosio, sicuro dell’obiettività del suo giudizio, non recedette dalle sue determinazioni. Un giorno, però, Ambrogio – alla presenza proprio dell’imperatore – pronunziò in basilica una violenta denunzia contro gli Ebrei, esclusi dalla Grazia e dalla Redenzione per la loro cecità. Inoltre, rammentò al sovrano i benefici ottenuti da Dio e dalla sua Chiesa. Di lì a poco, l’editto fu ritirato. Evidente, quindi, come il metropolita di Milano esortasse le autorità ad esercitare una politica restrittiva nei confronti di una classe di cittadini non cristiani.
Il secondo caso fu inerente all’eccidio di Tessalonica, nel 390, ordinato da Teodosio dopo aver ricevuto la notizia che la popolazione di quella città aveva tumultuato, uccidendo Buterico, comandante della guarnigione romana, reo di aver arrestato un noto auriga e vietato i giochi. Con una coraggiosa e nobile lettera, indirizzata all’imperatore, Ambrogio denunziò l’eccesso e la violenza dell’azione, che aveva cagionato numerose vittime innocenti. Pertanto, lo stesso sovrano era incorso in un terribile peccato, da espiarsi pubblicamente prima di potersi presentare all’altare e ricevere l’eucaristia.
𝗡𝗼𝘁𝗮. – All’epoca, non esisteva ancora la confessione in forma privata, come la si conosce oggi. Il peccatore, per poter essere riammesso ai sacramenti, doveva sottoporsi ad un’umiliante penitenza alla presenza di un vescovo e della comunità. Soltanto fra il VI ed il VII secolo, alcuni monaci irlandesi, guidati da san Colombano (†615), avrebbero introdotto nel continente un sistema di penitenza privata e 𝑡𝑎𝑟𝑖𝑓𝑓𝑎𝑡𝑎: in sintesi, ciascun peccato – una sorta di debito verso Dio – sarebbe stato pagato secondo una 𝑡𝑎𝑟𝑖𝑓𝑓𝑎 penitenziale predeterminata.
Per alcuni mesi, Teodosio non se ne diede per inteso. In prossimità del Natale, però, chiese la riconciliazione, si sottomise ad una pubblica penitenza e fu riammesso alla comunione. Teodoreto di Cirro (†458) tramanda di un drammatico incontro fra il metropolita milanese e l’imperatore, con il primo che impedisce al secondo di entrare in basilica se prima non si sottomette a pesanti umiliazioni dinanzi alla comunità. In realtà, lo stesso storico e teologo siriaco, all’epoca dei fatti, era soltanto un bambino o forse neppure era ancora nato: dunque, li avrebbe in seguito appresi 𝑑𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑡𝑜, ed in ulteriore conseguenza alla storia potrebbe senz’altro essersi mescolata la leggenda. Ad ogni modo, è certo che Ambrogio, nel 395, nel discorso funebre pronunziato in onore di Teodosio, rammentò come questi si fosse inginocchiato dinanzi a lui ed avesse pianto pubblicamente.
3. Il governo ecclesiastico di Sant’Ambrogio
Fra gli ecclesiastici del IV secolo, Ambrogio si distinse non poco per lo scrupolo nell’adempimento dei suoi doveri. Il vescovo di Milano lasciò profonda impronta della sua attività nelle battaglie contro i pagani e gli eretici, nella formazione morale del clero, nell’insegnamento religioso al popolo, nel culto dei martiri, nella restaurazione o edificazione di chiese, nella costante cura degli indigenti e degli orfani. Più in particolare, riuscì ad impedire la nomina di presuli filoariani e fu protagonista assoluto nel concilio di Aquileia del 381.
4. Il concilio di Aquileia del 381
Dopo la morte di Germinio (375 o 376), titolare della cattedra di Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, Serbia), Ambrogio era riuscito a far eleggere al suo posto l’ortodosso Anemio, o Anomio (†391?). Poiché Sirmio, appunto, era la sede principale della Pannonia, per i presuli filoariani dell’area aumentava il rischio di deposizione, aleggiante dal 366, quando il richiamato Germinio, sulle prime eretico, aveva accettato lo ὁμοούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠), la 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀. Fra quegli ecclesiastici, Palladio di Ratiaria (città sulle rive del Danubio non più esistente) e Secondiano di Sigindunum (attuale Belgrado, Serbia). Pertanto, costoro, già da tempo, si erano rivolti a Graziano, domandando che la loro causa fosse giudicata da un sinodo. Questo fu convocato ad Aquileia, nel settembre del 381. La storia impone di evidenziare che, con ogni probabilità, il sovrano ed Ambrogio si accordarono, nella primavera del medesimo anno, per dare al concilio un carattere ristretto, e non ecumenico, giusta le attese di Palladio risultanti dagli atti del tempo. Evidentemente, il metropolita milanese volle forzare la situazione per procedere ad un raffronto dottrinale con la sola presenza dei presuli occidentali da lui stesso convocati, e tutti certamente favorevoli alla sua impostazione. Per i due accusati non fu possibile conseguire il rinvio della discussione ad una riunione più allargata. Proprio Ambrogio richiese (ed ottenne) che si procedesse immediatamente al dibattito. Questo assunse quasi le forme di un interrogatorio, con lo stesso vescovo di Milano nelle vesti di un Pubblico Ministero 𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑙𝑖𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑚, e si concluse con la scomunica dei due ecclesiastici eretici. Costoro rifiutarono di riconoscere il Figlio e lo Spirito Santo come consustanziali al Padre, e su tale base occorse la condanna ufficiale della loro dottrina. Ad ogni modo, se è molto verosimile che il metropolita milanese sfruttò prima il favore di Graziano, e se è sicuro che quegli, in sede sinodale, fu appoggiato 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 dai trentadue convenuti, è altrettanto certo che il secondo concilio ecumenico della storia, non molti mesi prima, aveva condannato l’arianesimo e redatto un simbolo di fede che non dava adito ad alcun dubbio sull’uguaglianza delle tre persone trinitarie. Ed a Costantinopoli erano presenti soltanto padri orientali. Si aggiunga che nel 380 era stato promulgato l’editto di Tessalonica, che qualificava come «stolti eretici», condannabili dalle autorità sovrane, coloro i quali non credessero «nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali». In conseguenza, è da ritenere probabile – se non indiscutibile – che Palladio e Secondiano sarebbero stati scomunicati e deposti anche da un concilio ecumenico o comunque allargato alla presenza di presuli orientali.
5. Sant’Ambrogio autore
Quando fu nominato vescovo, Ambrogio non possedeva alcuna preparazione teologica. Del resto, egli stesso sostiene come dovette insegnare prima ancora di avere imparato. Certamente, fu abile e rapido nell’apprendere: tuttavia, vuoi per la sua natura pragmatica, vuoi per i suoi impegni di amministrazione ecclesiastica, non si addentrò in speculazioni di natura teologica o in opere originali di carattere morale. In linea di massima, il vescovo meneghino fu un divulgatore che attinse in particolare dai teologi greci, dai quali trasse il metodo ed il contenuto dottrinale degli scritti. Questi ultimi sono differenziabili fra esegetici, dogmatici, etici, morali ed ascetici. Ai medesimi si aggiungono l’epistolario, gli inni liturgici ed una collezione di orazioni, soprattutto funebri.
Fra i trattati esegetici, in tutto diciotto, il più celebre è certamente l’𝐻𝑒𝑥𝑎𝑒𝑚𝑒𝑟𝑜𝑛 (oppure 𝐻𝑒𝑥𝑎𝑚𝑒𝑟𝑜𝑛), sui sei giorni della creazione. Dal 𝐺𝑒𝑛𝑒𝑠𝑖, l’Autore prese ispirazione per lunghe riflessioni sui costumi e sul simbolismo degli animali, specie degli uccelli.
Le principali opere dogmatiche di Ambrogio sono il 𝐷𝑒 𝐹𝑖𝑑𝑒, vergato per uso di Graziano, il 𝐷𝑒 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑢 𝑆𝑎𝑛𝑐𝑡𝑜, in tre libri, dedicato al medesimo sovrano, ed il 𝐷𝑒 𝐼𝑛𝑐𝑎𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑖𝑠 𝑑𝑜𝑚𝑖𝑛𝑖𝑐𝑎𝑒 𝑠𝑎𝑐𝑟𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜.
In linea di massima, si tratta di frettolosi componimenti che ricalcano trattati di Autori di quel IV secolo, quali i santi Atanasio (†373), Basilio Magno (†379), Gregorio Nazianzeno (†389/390), Epifanio di Salamina (†403). Per altro, san Girolamo (†420) fu fortemente critico sul 𝐷𝑒 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑢 𝑆𝑎𝑛𝑐𝑡𝑜, scrivendo: «preferisco farla da traduttore di lavori di altri, anziché, come fanno certuni, da cornacchia disgustosa che si adorna delle penne altrui. Lessi poco fa il lavoruccio di un tale [Ambrogio] sullo Spirito Santo, e, come dice il poeta comico, 𝑒𝑥 𝑔𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑠 𝑏𝑜𝑛𝑖𝑠, 𝑣𝑖𝑑𝑖 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑏𝑜𝑛𝑎. Nulla di dialettico in esso, nulla di virile, nulla di convincente». Presumibilmente, colui che sarebbe diventato l’Autore della 𝑉𝑢𝑙𝑔𝑎𝑡𝑎 non nutriva grandi simpatie nei riguardi del metropolita di Milano, atteso che questi si intrometteva in affari del circolo romano di papa san Damaso I (†384) – di cui lo stesso Girolamo faceva parte –, provocandone l’irritazione. In ogni modo, gli esperti contemporanei, pur ammettendo la scarsissima originalità dei trattati dogmatici ambrosiani, ne riconoscono la rilevanza nella storia della teologia latina, poiché da quelli proprio i teologi occidentali avrebbero tratto diverse formulazioni dottrinali e processi espositivi, peculiari nella tradizione teologica. Gli altri scritti dogmatici del vescovo di Milano sono il 𝐷𝑒 𝑚𝑦𝑠𝑡𝑒𝑟𝑖𝑖𝑠 ed il 𝐷𝑒 𝑝𝑎𝑒𝑛𝑖𝑡𝑒𝑛𝑡𝑖𝑎. Nel primo, l’Autore, tramite difficoltose parafrasi di versetti biblici, spiega il contenuto simbolico del rituale. Il secondo è un commento al Salmo XXXVII ed è diretto contro i pochi superstiti del novazianismo, del quale già si è trattato nel presente contributo.
Il trattato 𝐷𝑒 𝑜𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑖𝑠 𝑚𝑖𝑛𝑖𝑠𝑡𝑟𝑜𝑟𝑢𝑚 costituisce, storicamente, il primo tentativo di riassumere l’etica cristiana. Nell’opera, il Dottore ricalca il 𝐷𝑒 𝑜𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑖𝑠 di Cicerone (106-43 a.C.), non solo nel piano generale, ma anche nei pensieri e nelle espressioni, sistemando l’insegnamento stoico con quello biblico. Più in particolare, Ambrogio raccolse dalla morale stoica, di cui proprio Cicerone era stato suggestivo esegeta, diverse nozioni, fra cui l’argomento del bene supremo, la ripartizione tra la ragione e le passioni, la distinzione tra doveri primari e secondari, la graduatoria delle virtù. Nel vescovo del IV secolo, però, tali concetti sono illuminati da ragioni e spirito superiori, del tutto ignoti all’oratore e politico romano, e quindi affermati con nuova efficacia.
Di carattere morale-ascetico sono diversi scritti ambrosiani, riguardanti soprattutto la verginità, proposta come virtù cristiana ed esaltata quale istituzione divina. Naturalmente, Ambrogio non era contrario al matrimonio, ma intendeva sostenere che la popolazione tende ad aumentare nei luoghi in cui sono frequenti le vocazioni verginali. In realtà, come acutamente rilevato da vari studiosi moderni, il vescovo di Milano confondeva ingenuamente l’effetto con la causa.
Le orazioni funebri, pronunziate in onore del fratello san Satiro, di Valentiniano II e di Teodosio I, rappresentano sommi esempi dell’eloquenza latina del IV secolo. In quelle, Ambrogio, pur utilizzando egregiamente le varie risorse della retorica, concede spazio ai sentimenti ed ai ricordi personali, mescolandovi opinioni filosofiche e religiose sulla morte e sulle vicende umane.
L’epistolario ambrosiano include novantuno lettere, anche se alcune rappresentano rapporti o scritti non aventi le caratteristiche proprie della corrispondenza. In ogni caso, tali epistole sono documenti di straordinaria rilevanza: sia perché permettono di ricostruire la biografia del vescovo milanese sia, soprattutto, perché – attesa la partecipazione di Ambrogio a varie questioni religiose e politiche – costituiscono fonte delle vicende dell’epoca.
Quanto al contributo ambrosiano all’innografia, si è già rilevato come il metropolita di Milano, durante le battaglie del 385 e del 386, intrattenesse le folle che occupavano le chiese con il canto di salmi e di inni. Ambrogio stesso ne compose alcuni, ma dei tantissimi che nelle raccolte sono indicati come ambrosiani, soltanto dodici sono certamente attribuibili alla sua penna. In ogni modo, sono caratterizzati da ammirevole semplicità nelle espressioni e da supremo ardore evangelico. Uno, tradotto dal latino, è il seguente: «𝑉𝑖𝑒𝑛𝑖, 𝑅𝑒𝑑𝑒𝑛𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖, 𝑠𝑖 𝑚𝑜𝑠𝑡𝑟𝑖 𝑖𝑙 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑉𝑒𝑟𝑔𝑖𝑛𝑒; 𝑠𝑖 𝑠𝑡𝑢𝑝𝑖𝑠𝑐𝑎 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜: 𝑡𝑎𝑙𝑒 𝐹𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑠𝑖 𝑎𝑑𝑑𝑖𝑐𝑒 𝑎 𝐷𝑖𝑜. 𝑁𝑜𝑛 𝑑𝑎𝑙 𝑠𝑒𝑚𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑢𝑜𝑚𝑜, 𝑚𝑎 𝑑𝑎𝑙 𝑠𝑜𝑓𝑓𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑉𝑒𝑟𝑏𝑜 𝑑𝑖 𝐷𝑖𝑜 𝑠𝑖 𝑒̀ 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒 𝑒 𝑖𝑙 𝑓𝑟𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑒̀ 𝑚𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜 […]. 𝑃𝑎𝑟𝑖 𝑎𝑙𝑙’𝑒𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑃𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑟𝑖𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒, 𝑠𝑜𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑒 𝑓𝑒𝑟𝑚𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑏𝑜𝑙𝑒 𝑣𝑖𝑟𝑡𝑢̀ 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜. 𝐺𝑖𝑎̀ 𝑟𝑖𝑓𝑢𝑙𝑔𝑒 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑝𝑒 𝑒 𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒 𝑒𝑚𝑎𝑛𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑎 𝑙𝑢𝑐𝑒, 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒 𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑜𝑠𝑐𝑢𝑟𝑎𝑟𝑒, 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑙𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑑𝑖 𝑓𝑒𝑑𝑒 𝑖𝑛𝑒𝑠𝑎𝑢𝑟𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒. 𝑂 𝐶𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜, 𝑟𝑒 𝑐𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖𝑠𝑠𝑖𝑚𝑜, 𝑠𝑖𝑎 𝑔𝑙𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑎 𝑡𝑒 𝑒 𝑎𝑙 𝑃𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑜 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑜 𝑃𝑎𝑟𝑎𝑐𝑙𝑖𝑡𝑜, 𝑜𝑟𝑎 𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑖 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑙𝑖. 𝐴𝑚𝑒𝑛». I vari inni fecero da modello, con la conseguenza che sant’Ambrogio, patrono di Milano e Dottore della Chiesa, deve essere considerato il padre dell’innologia liturgica latina.