Cristianesimo e teologia – Capitolo XVII

I Padri Cappadoci – 3ª parte: San Gregorio di Nazianzo

1. Biografia

    Gregorio Nazianzeno nacque intorno al 330 ad Arianzo, villaggio non lontano da Nazianzo (nei pressi dell’odierna Bekarlar, Turchia). La madre fu santa Nonna (†374) ed il padre san Gregorio il Vecchio (†374). Quest’ultimo, dal 325, era vescovo proprio di Nazianzo.

    𝗡𝗼𝘁𝗮 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗮 𝘀𝘂𝗹 𝗰𝗲𝗹𝗶𝗯𝗮𝘁𝗼 𝗲𝗰𝗰𝗹𝗲𝘀𝗶𝗮𝘀𝘁𝗶𝗰𝗼. – Il celibato ecclesiastico si affermò agli inizi del IV secolo, quando alcuni vescovi, riunitisi nell’attuale Granada (cosiddetto concilio di Elvira o di Iliberri), vietarono ai chierici sia il matrimonio sia il contributo alla procreazione di figli, pena la deposizione. Tale disposizione fu in seguito ratificata, in Occidente, prima da papa san Siricio (†399), quindi da alcuni sinodi tenutisi fra il 390 ed il 401, ed infine dal pontefice sant’Innocenzo I (†417). Invece, in Oriente vari concili, fra cui il primo ecumenico (Nicea 325), autorizzarono gli ecclesiastici ad utilizzare i diritti coniugali: in altri termini, il celibato era una libera scelta. Soltanto nel 692 il Concilio di Trullo (nei pressi di Costantinopoli) deliberò che ai coniugati non si potesse negare l’ordinazione a suddiacono, diacono o prete, ma vietò il matrimonio dopo l’ordinazione stessa, imponendo il celibato assoluto per i vescovi. Questi ultimi in genere erano scelti fra i monaci. Qualora fossero stati sposati, la moglie si sarebbe dovuta ritirare in un monastero.

    Gregorio iniziò gli studi a Cesarea di Cappadocia (moderna Kayseri, Turchia), e durante quelli conobbe san Basilio Magno (†379). Fra i due nacque un inscindibile legame di profonda amicizia. Negli anni seguenti, lo stesso Nazianzeno proseguì la sua formazione in lettere e filosofia ad Alessandria (forse anche a Cesarea di Palestina) e la completò ad Atene, ove ritrovò proprio Basilio. Nell’ultima delle città appena richiamate, Gregorio insegnò eloquenza. Verso il 355, si recò a Costantinopoli, ove ricevette il battesimo dal fratello, san Cesario (†369). Quindi, intorno al 360 rientrò in Cappadocia, e qui ad alcuni periodi in cui visse presso Basilio, nel cenobio da questi creato, ne alternò altri durante i quali, ordinato sacerdote nel 361 o 362, aiutò il padre ad amministrare la chiesa di Nazianzo. Nel 372, lo stesso Basilio, da due anni vescovo di Cesarea di Cappadocia, nominò l’amico presule di Sasima (attuale villaggio di Hasanköy, Turchia), ma egli non raggiunse la sede (né lo avrebbe mai fatto in seguito): restò a Nazianzo, dove, dopo la morte del genitore (374), continuò a dirigere la chiesa. Tuttavia, non riuscendo a ottenere che fosse nominato un degno successore al padre, si ritirò a Seleucia, in Isauria (attuale Silifke, Turchia), dove rimase per un lungo periodo. Qui lo raggiunsero prima la notizia della morte di Basilio, e poi la chiamata della comunità ortodossa di Costantinopoli che, dopo la morte del filoariano imperatore Valente (378), poteva sperare in un futuro migliore. Gregorio raggiunse la città, ove predicò con grande efficacia contro l’eresia ariana. Nonostante alcuni tentativi di opposizione, lo stesso Nazianzeno, nel 380, fu eletto vescovo della capitale, e subito riuscì ad ottenere dal nuovo imperatore, Teodosio I (347-395), che le chiese fossero dagli eretici riconsegnate agli ortodossi. Nel 381 Gregorio prese parte al secondo concilio ecumenico della storia, e questo, sulle prime, ne riconobbe la nomina a metropolita di Costantinopoli. In seguito, però, alcuni degli ecclesiastici presenti segnalarono il canone niceno che proibiva i trasferimenti degli episcopi, con il Nazianzeno che, almeno in teoria, era già titolare della sede di Sasima. Il cappadoce, per riprendere le sue parole, si definì «stanco di lottare contro i pettegolezzi e contro l’invidia», e preferì quindi ritirarsi. Tornò a Nazianzo, ove nel 383 riuscì a far nominare vescovo il cugino Eulalio. Quindi, abbandonò definitivamente la vita ecclesiastica attiva, morendo alcuni anni dopo, nel 389 o 390. Nel 1568 è stato proclamato Dottore della Chiesa.

    2. Le caratteristiche della teologia di San Gregorio di Nazianzo

    Gregorio sottolinea che la teologia non è 𝑡𝑒𝑐𝑛𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎, ossia tecnica umana della parola, ma nasce da una vita di preghiera, da un continuo dialogo con Dio, imponendo lungo tirocinio e costante perfezionamento. In sintesi, il Dottore di Nazianzo è consapevole che la grandezza della teologia sta nel non esprimersi laddove la Scrittura è silente. In uno dei passi della sua opera più celebre – nota come 𝐶𝑖𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑖 𝑡𝑒𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑖 –, polemizzando con l’anomeo Eunomio (†393/395), così si esprime: «Come è stato generato il Figlio? Io ti ripeto: bisogna onorare in silenzio la generazione di Dio. Già è troppo per te sapere che Egli è stato generato! Come gli Angeli non lo capiranno mai, a maggior ragione non lo capirai tu! Tu vuoi che ti spieghi come Egli è stato generato? Lo è stato nella maniera che conosce il Padre che lo ha generato e il Figlio che è stato generato. Il resto è coperto da una nube ed è sottratto ai tuoi deboli sguardi». Pertanto, la teologia si limita a comprendere qualcosa che sta 𝑖𝑛𝑡𝑜𝑟𝑛𝑜 a Dio nella misura in cui lui lo rivela. Se si prova a forzare questo limite, diventa mera tecnologia. Il teologo, pertanto, è 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑉𝑒𝑟𝑏𝑜: la sua parola è al servizio della Parola, ed è necessario evitare speculazioni.

    3. I “Cinque discorsi teologici”

    I 𝐶𝑖𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑖 𝑡𝑒𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑖 costituiscono la vetta più alta della teologia trinitaria dei Padri cappadoci. Secondo le tesi anomee, diffuse in particolare da Eunomio, soltanto il Padre, ingenerato, poteva ritenersi realmente Dio, mentre il Figlio aveva iniziato la sua esistenza per un atto di volontà del Padre stesso, con la conseguenza che la sostanza dei due era diversa. Più in particolare, la οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎), cioè l’essenza della divinità, risiedeva nel suo essere ingenerata, ed era quindi propria del Padre, poiché soltanto questi, e non anche il Figlio, era ἀγεννεγός (𝑎𝑔𝑒𝑛𝑛𝑒𝑔𝑜́𝑠), ossia ingenerato. Inoltre, gli ariani più radicali affermavano che la sostanza divina fosse incomunicabile, a differenza della ἐξέεγεια (𝑒𝑥𝑒̀𝑒𝑔𝑒𝑖𝑎), vale a dire dell’𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡𝑎̀: pertanto, la divinità del Figlio consisteva soltanto nella sua partecipazione all’attività stessa.

    Ebbene, nel primo dei suoi 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑖, Il Nazianzeno esortò il suo pubblico ad individuare le differenze, fra Padre e Figlio, in termini non di 𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎, ma di distinzioni fra ipostasi divine.

    Nel secondo, il cappadoce si soffermò sulle possibilità e sulle regole della conoscenza di Dio. Certamente Dio è conoscibile tramite le opere del Creato, ma lo stesso Nazianzeno distinse fra l’«esistenza» di Dio, che può essere conosciuta, e l’«essenza» di Dio, che invece rimane ignota. Pertanto, considerando che i termini propri della teologia trinitaria – incorporeo, ingenerato, immutabile, senza inizio – spettano all’essenza di Dio, è necessario avvicinarsi ad essi sapendo di affrontare il 𝑚𝑖𝑠𝑡𝑒𝑟𝑜 di Dio. Anche le analogie e le immagini presenti nelle Scritture – luce, soffio, fuoco, eccetera – non sono sufficienti per completare la conoscenza di Dio.

    Il terzo e il quarto 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 furono riservati al Figlio, mentre il quinto allo Spirito Santo. Il teologo di Nazianzo respinse le tesi eunomiane, che, giocando sull’apparente contraddizione fra l’assegnazione al Figlio del carattere di generato e al Padre di ingenerato, facevano discendere l’impossibilità, per il primo, di essere Dio. Prendendo spunto da vari passi biblici, Gregorio sottolineò che la proprietà di generato andasse riferita all’ipostasi del Figlio, non alla sua essenza divina. In estrema sintesi, Padre e Figlio erano (e sono) distinti nelle loro ipostasi, ma uniti nella loro natura. Quanto ai termini non presenti nelle Scritture – quale ὁμοούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠), 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 –, rilevati dagli ariani a sostegno delle loro dottrine, Gregorio sostenne che quelli, ancorché nuovi, fossero adatti alla verità che trasmettevano. Ancora, gli eretici asserivano che l’inferiorità del Figlio, rispetto al Padre, fosse ricavabile da vari versi contenuti nella Bibbia, come, ad esempio, «Il Padre è più grande di me» (Giovanni, 14,28). Il cappadoce replicò che tali passi andassero rapportati alla natura umana del Figlio incarnato e non a quella divina condivisa pienamente e perfettamente con il Padre.

    Nell’ultimo 𝐷𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜, dedicato allo Spirito Santo, il Nazianzeno, sostenendone la divinità, chiarì le relazioni fra le tre persone. Il Padre ingenerato è l’origine della natura divina, la quale si estende alla Trinità, attuandosi da un lato con la generazione del Figlio, e dall’altro con la processione dello Spirito Santo. Anche quest’ultimo, quindi, è consustanziale al Padre e al Figlio. Un’immagine semplice, e allo stesso tempo perfetta, della teologia trinitaria.

    4. Conclusioni

    Alcuni studiosi contemporanei ritengono che il Dottore di Nazianzo sia stato non tanto un teologo, quanto piuttosto un oratore, uno scrittore di lettere ed un poeta. Questa tesi è categoricamente respinta dalla maggioranza degli esperti. Difatti, se è vero che Gregorio fu autore di panegirici, di epitaffi, di poemi e di taluni discorsi d’occasione, e che tali opere costituiscono la parte decisamente più ampia della sua produzione, è indiscutibile che i 𝐶𝑖𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑖 𝑡𝑒𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑖, in uno ad altri scritti, rappresentano un’eredità di inestimabile valore teologico e di millenaria tenuta. Pertanto, in accoglimento dell’opinione prevalente, il Nazianzeno va considerato non solo come 𝑢𝑛 teologo, in senso generico ed indeterminato, ma come uno dei maggiori esponenti della disciplina nella storia, e quindi degno dell’appellativo – appunto di «teologo» – che gli fu conferito dal quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451) e che tuttora detiene presso le Chiese ortodosse.

    Ed allora, si vuole terminare questo capitolo, e più in generale la storia dei Padri cappadoci, proprio con alcune espressioni del Dottore di Nazianzo, estratte da una sua 𝑂𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒: «Dio è una sola ousia in tre […]. Noi non siamo sabelliani difendendo l’uno contro i tre, con una confusione che sopprime la distinzione. Noi non siamo ariani, sostenendo i tre contro l’uno, con una divisione che distrugge l’unità […]. Noi crediamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, consustanziali, uguali nella gloria. L’uno lo riconosciamo nella 𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎 e nell’inseparabilità dell’adorazione; i tre li confessiamo nelle ℎ𝑦𝑝𝑜𝑠𝑡𝑎̀𝑠𝑒𝑖𝑠».

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