Cristianesimo e teologia – Intermezzo 5

1. Papa Damaso I

Il 24 settembre 366 si spense papa Liberio e subito iniziò la lotta per la successione. Già nel medesimo giorno alcuni presbiteri, tre diaconi – fra cui Ursino (†385) – ed una parte della comunità romana, restata fedele allo stesso Liberio durante il suo esilio, si radunarono nella basilica di papa Giulio (oggi di Santa Maria in Trastevere), rivendicando il ministero petrino proprio per Ursino. Il presule di Tivoli, Paolo, procedette all’ordinazione. Nello stesso tempo, i seguaci di un altro diacono si riunirono nella chiesa di san Lorenzo in Lucina e lo elessero a vescovo di Roma. Questi si chiamava Damaso, era nato quasi certamente nell’Urbe nel 305 o 306, e qui aveva studiato e percorso la sua carriera. Il 1° ottobre successivo, nella basilica lateranense, lo stesso Damaso, secondo consolidata tradizione, fu consacrato dal vescovo di Ostia, Florenzio (†382?). Nei giorni precedenti, però, proprio Damaso aveva ordinato l’attacco alla basilica 𝐼𝑢𝑙𝑖𝑖, avvalendosi di aurighi e popolani reclutati con il denaro. Lo scontro, durato almeno settanta ore consecutive, aveva provocato numerose vittime, soprattutto fra i seguaci di Ursino. Tuttavia, questo fu soltanto il primo dei combattimenti fra i damasiani e gli ursiniani. Un secondo occorse il 26 ottobre di quel 366 ed un terzo nell’autunno del 368. Pure in queste circostanze, i morti furono diversi. Dopo tale battaglia, lo scisma terminò, anche perché l’imperatore, sul finire dell’anno, vietò qualsiasi riunione faziosa in un’area che comprendeva l’Urbe ed un’ampia zona circostante. Il clero inizialmente schieratosi con Ursino si mise dalla parte di Damaso, che recuperò anche gli edifici di culto che, in quegli anni di tumulti, erano stati occupati dai partigiani dell’antipapa.

Non cessarono, però, i problemi per il pontefice che, a far epoca dal 370, fu sottoposto a procedimento criminale. L’azione giudiziaria fu provocata da un seguace di Ursino: tale Isacco, un ebreo convertito che in seguito avrebbe riabbracciato la sua prima fede. Questi scagliò contro Damaso (ormai Damaso I) una pesantissima accusa: l’avere quegli piena responsabilità per le violenze subite dagli ursiniani negli anni fra il 366 ed il 368. Trattandosi, come accennato, di un procedimento criminale, il giudizio fu istruito dinanzi ad un tribunale ordinario, presieduto dal 𝑣𝑖𝑐𝑎𝑟𝑖𝑢𝑠 𝑢𝑟𝑏𝑖𝑠 Massimino, il quale, nella raccolta delle testimonianze, non esitò a far torturare alcuni ecclesiastici. Su tale vicenda, unica nella storia, non si possiedono molte notizie. Ad ogni modo, è pressoché certo che la stessa si concluse intorno al 372/373, quando l’imperatore Valentiniano I (321-375) avocò a sé il giudizio, con successivi provvedimenti di assoluzione per il papa e di condanna all’esilio per Isacco.

𝗔𝗹𝘁𝗿𝗶 𝗿𝗶𝗹𝗶𝗲𝘃𝗶 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗶. – Di là della sua «pastorale energica», cioè del suo ricorso alla violenza, Damaso I fu tutt’altro che un cattivo papa. Seppe battersi efficacemente in difesa dell’ortodossia, ed assunse un «rilievo assoluto» per il riconoscimento del primato della Chiesa di Roma, Sede Apostolica, teologicamente basato nel noto passo evangelico: «[…] tu sei Pietro e su questa pietra […]» (Matteo 16, 17-19). Nella tradizione petrina si giustificò anche il ruolo di primazia – dopo Roma – delle Chiese di Alessandria e di Antiochia. La prima, in quanto «a nome [di] Pietro è stata consacrata dal suo discepolo ed evangelista Marco». La seconda, perché «egli [Pietro] vi abitò prima di venire a Roma e lì per la prima volta sorse il nome di cristiani per il popolo nuovo». Per inciso, Costantinopoli avrebbe ricevuto dignità patriarcale nel secondo concilio ecumenico della storia, e Gerusalemme nel quarto (Calcedonia, 451).
L’autorità di Damaso, fondata proprio sul primato della sede apostolica, fu riconosciuta non soltanto dagli occidentali, ma anche da quegli orientali tradizionalmente legati a Roma. Costoro, infatti, si rivolsero al pontefice perché fosse rimosso Timoteo di Berito (moderna Beirut, Libano), e fu allo stesso Damaso che ricorse san Basilio Magno (†379) per domandare il suo intervento nelle divisioni fra i cristiani d’Oriente: «ci è parso opportuno scrivere al vescovo di Roma […] perché usi la sua piena autorità […]».
Il papa in parola recuperò anche molte catacombe, scrivendo personalmente epigrafi sulle virtù di vari martiri. E fu sempre Damaso I, nel 382, a commissionare a san Girolamo (†420) la 𝑉𝑢𝑙𝑔𝑎𝑡𝑎 – come è definita dal XVI secolo –, ossia la traduzione in latino della Bibbia dalle lingue originali, con revisione di precedenti molteplici trasposizioni latine di vari testi, le quali, poiché diverse fra loro, potevano causare una certa anarchia fra le comunità. Il pontefice, però, non ne vide la realizzazione: si spense l’11 dicembre 384. Alla sua morte, Ursino – ancora lui – si sarebbe candidato a succedergli, ma sarebbe stato battuto da san Siricio (†399).

2. Il priscillianesimo

Nella penisola iberica, verso il 370, nacque un movimento ereticale che, dal nome del suo più significativo rappresentante, Priscilliano, avrebbe assunto il nome di priscillianesimo. La dottrina sosteneva che nel corpo, opera del demonio, l’anima fosse intrappolata come punizione per i peccati. L’uomo, quindi, poteva salvarsi soltanto con una virtuosa condotta di vita: in primo luogo, vendendo i suoi beni e destinando il ricavato ai poveri. Ancora, la corrente asseriva come Cristo fosse esclusivamente 𝑒𝑚𝑎𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖𝑣𝑖𝑛𝑎, con conseguente negazione delle sue Incarnazione e Resurrezione. Gesù, quindi, non aveva natura umana: anzi, il Figlio era soltanto il 𝑚𝑜𝑑𝑜 di presentarsi di un’unica Entità celeste. Quindi, una dottrina gnostico-manichea, antitrinitaria, sabelliana e docetica, in cui, per altro, il battesimo era ritenuto quale evasione dai valori del mondo. Inoltre, gli asceti della setta si astenevano dai rapporti sessuali, portavano via il pane eucaristico ricevuto in chiesa e lo consumavano in seguito, in occasione di adunanze dedicate alla preghiera ed al vaticinio. Quest’ultima usanza, secondo alcuni storici, costituiva una forma di 𝑟𝑖𝑓𝑖𝑢𝑡𝑜 della Chiesa ufficiale. Tra i seguaci di Priscilliano, si segnalarono presto due vescovi – Istanzio e Salviano – che prima gli conferirono il presbiterato e poi gli assegnarono la cattedra episcopale di Abula (oggi Ávila, Spagna). Invece, i principali avversari del movimento ereticale – per altro condannato nel sinodo del 380 di Caesaraugusta (moderna Saragozza, Spagna) – furono Idazio di Emerita Augusta (attuale Mérida, Spagna) e Itacio di Ossonuba (odierna Faro, Portogallo). Nel 381, questi due presuli si rivolsero all’imperatore Graziano (359-383), ed ottennero da lui un rescritto con cui Priscilliano, Istanzio e Salviano furono deposti. Nell’anno seguente, i tre si recarono in Italia, ma non furono ricevuti né da papa Damaso I, a Roma – ove morì Salviano –, né dal metropolita di Milano, sant’Ambrogio (†397). In quest’ultimo centro, però, i due vescovi ancora in vita, approfittando dell’assenza del sovrano, riuscirono a corrompere il suo 𝑚𝑎𝑔𝑖𝑠𝑡𝑒𝑟 𝑜𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑜𝑟𝑢𝑚, Macedonio, e ad ottenere da lui un atto che li reintegrava nel governo delle loro chiese. Rientrati in Hispania, Priscilliano e Istanzio si conquistarono il favore del proconsole Volvenzio, inducendolo ad incolpare Itacio. Questi, per evitare guai peggiori, o forse perché espulso proprio da Volvenzio, riparò in Gallia, ad Augusta Treverorum (moderna Treviri, Germania), che nel 383 divenne la capitale di Magno Massimo (†388), vincitore di Graziano e padrone di Britannia, Gallia e Hispania. Proprio a questo sovrano si rivolse Itacio, supplicandolo di interessarsi della vicenda contro i priscillianisti. Quegli aderì alla richiesta: i rapporti con gli altri imperatori – Valentiniano II (371-392), ancorché ancora minorenne, e Teodosio I (347-395) – erano tesi, e quindi Massimo pensava di trovare appoggio nella Chiesa cattolica, a sua volta bisognosa di validi riferimenti politici per affrontare sia il partito di Priscilliano, diffusosi nella penisola iberica e nel sud della Gallia, sia gli altri movimenti ereticali non ancora del tutto sopiti. Così, lo stesso sovrano ordinò che i presuli ed i principali esponenti della setta nata in Hispania fossero condotti al giudizio di un concilio. Questo si tenne a Burdigala (attuale Bordeaux, Francia) nel 384, sotto la presidenza del locale vescovo, san Delfino (†401/403). Istanzio non riuscì a dimostrare la sua innocenza e fu deposto. Priscilliano, temendo la medesima sorte, presentò ricorso al tribunale imperiale, ma il processo, tenutosi nel 385, si concluse con la condanna a morte, per decapitazione, dello stesso Priscilliano e di sei suoi seguaci. Fu la prima volta nella storia che eretici pagarono con la vita la loro dottrina, e prima dell’esecuzione vani risultarono i tentativi di ottenere la clemenza imperiale, effettuati dal vescovo di Milano, sant’Ambrogio, e da quello di Civitas Turonorum (oggi Tours, Francia), san Martino (†397). Altri sei priscillianisti furono esiliati o deportati. Il tragico episodio fu censurato nel mondo cristiano: fra gli altri, da papa Siricio e dal metropolita milanese, il quale deplorò lo spargimento di sangue dovuto a ragioni dottrinali. Tuttavia, proprio dall’esecuzione i seguaci di Priscilliano trassero un forte incentivo al loro proselitismo: molte chiese del centro e del nord della penisola iberica sposarono la causa del 𝑚𝑎𝑟𝑡𝑖𝑟𝑒, ed il priscillianesimo, sebbene condannato nel primo concilio di Toledo (400), sarebbe sopravvissuto – anche perché agevolato dall’invasione vandalica – fino al sinodo di Braga del 563.

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