Cristianesimo e teologia – Capitolo XIII

Sant’Ilario di Poitiers

1. Dalla nascita all’esilio

Nato a Poitiers (all’epoca Pictavium) nel primo decennio del IV secolo, Ilario ricevette una solida formazione letteraria. Probabilmente non crebbe in un ambiente cristiano, ma si convertì alla fede, in età imprecisabile, dopo aver letto e studiato le Scritture. Nel 352 o 353 fu eletto vescovo della città, e presto iniziò a conoscere le polemiche del suo tempo – di cui nulla in precedenza sapeva – comprendendo subito il pericolo derivante dagli ariani. Ne divenne oppositore, e come conseguenza fu scomunicato in un concilio tenutosi in Gallia (nell’attuale Béziers), nel 356, ed inviato in esilio in Frigia (nell’odierna Turchia). Tale soggiorno obbligato, anziché nuocergli, gli permise di apprendere la lingua greca e di entrare in contatto con colti ecclesiastici.

2. Il concilio di Seleucia. Le diverse correnti dell’arianesimo

Durante il confino, Ilario partecipò al concilio di Seleucia (di Pieira – nei pressi dell’odierna Samandağ, Turchia). Questo era stato convocato nel 359 da Costanzo II (317-361) in uno a quello di Ariminum (attuale Rimini, Italia). In essi, rispettivamente, i presuli orientali e occidentali avevano il compito di stabilire se il Figlio fosse consustanziale al Padre, come sostenevano i niceni, oppure, alternativamente, dissimile, simile secondo la sostanza, genericamente simile, come affermavano le tre diverse correnti ariane del tempo.

Più specificamente, verso il 355, il celesiriano Aezio (†367?) ed il suo discepolo e segretario, il cappadoce Eunomio (†393/395), avevano di fatto risuscitato la dottrina originale, altrimenti diventata meno radicale, affermando l’impossibilità logica dell’identità o somiglianza «sotto l’aspetto della divinità» del Padre con il Figlio, con quest’ultimo ἐξ ῾ετέρας οὐσίας (𝑒𝑥 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑎𝑠 𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎𝑠), ossia 𝑑𝑖 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑎 𝑠𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑎, ma anche creato ἐξ οὐκ ὄντων (𝑒𝑥 𝑜𝑢𝑘 𝑜𝑛𝑡𝑜𝑛), cioè 𝑑𝑎𝑙 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎. In sintesi, il Figlio era ἀνόμοιος (𝑎𝑛𝑜̀𝑚𝑜𝑖𝑜𝑠), 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑖𝑚𝑖𝑙𝑒, quanto a natura e sostanza, rispetto al Padre, ed è per tali ragioni che i seguaci del partito in parola sono definiti anomei, oppure, più raramente, aeziani o eunomiani. Contrapposto a quest’ala estrema, stava un folto gruppo di ecclesiastici, capeggiato da Basilio (†365?), vescovo di Ancyra (moderna Ankara, Turchia), secondo cui il Figlio era ὁμοιούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑖𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠) riguardo al Padre, vale a dire 𝑠𝑖𝑚𝑖𝑙𝑒 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑎. Tale corrente – definita dei semiariani oppure degli omoiusiani – aveva ottenuto successo, nel 358, nel concilio di Ancyra, convocato per reagire alla formula di fede pubblicata nel sinodo di Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, Serbia) di un anno prima. Questa formula, nell’evidenziare l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre, aveva bandito l’uso sia del niceno ὁμοούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠), consustanziale, sia del semiariano ὁμοιούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑖𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠). Il terzo schieramento, capeggiato da Acacio di Cesarea (†366?), era intermedio fra anomei e semiariani: difatti, eliminato il termine οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎), per rendersi accetto ai primi, sosteneva che il Figlio fosse ὅμοιος, (ℎ𝑜̀𝑚𝑜𝑖𝑜𝑠), cioè 𝑠𝑖𝑚𝑖𝑙𝑒, rispetto al Padre, nella speranza di conciliare i secondi. In conseguenza, gli aderenti a tale corrente sono oggi identificati dagli storici con gli aggettivi omei, omeisti o acaciani.

Il sinodo di Seleucia, sulla questione riguardante il rapporto fra il Padre ed il Figlio, si concluse con un nulla di fatto: evidentemente, per le differenze di vedute, i centosessanta convenuti si trovarono su posizioni fra loro inconciliabili.

3. Il concilio di Ariminum ed il trionfo degli omei

Nel contemporaneo sinodo in Italia, i presuli occidentali, sulle prime, si espressero in favore dello ὁμοούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠), condannando i filoariani Valente di Mursa (oggi Osijek, Croazia) e Ursacio di Sigindunum (attuale Belgrado, Serbia), i quali avevano proposto la cosiddetta 𝑃𝑖𝑎𝑡𝑡𝑎𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑆𝑖𝑟𝑚𝑖𝑜. Quest’ultima – nota anche come 𝐶𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑑𝑎𝑡𝑎𝑡𝑜 – era stata elaborata nei primi mesi di quel 359, evidentemente a Sirmio, da ecclesiastici appartenenti al partito acaciano. Essa, banditi ancora una volta i termini ὁμοούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠) e ὁμοιούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑖𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠), e quindi pure οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎), aveva definito il Figlio, rispetto al Padre, ὅμοιος κατά. πάντᾳ (ℎ𝑜̀𝑚𝑜𝑖𝑜𝑠 𝑘𝑎𝑡𝑎́ 𝑝𝑎𝑛𝑡𝑎) cioè 𝑠𝑖𝑚𝑖𝑙𝑒 𝑖𝑛 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜. In conseguenza, anche il successo ottenuto dai semiariani nel 358 era stato vanificato. I richiamati Valente ed Ursacio, tramite un’ambasceria, ricorsero all’imperatore, presso cui si recarono anche dieci legati ortodossi. Questi ultimi, però, non furono ricevuti da Costanzo, il quale, invece, manifestò favore ai messi della minoranza, e quindi agli omei. In breve tempo, i rappresentanti niceni dovettero cedere, ed a Niké (odierna Havsa, Turchia) firmarono il 𝐶𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑑𝑎𝑡𝑎𝑡𝑜, per altro omettendo le parole «in tutto» dopo quella «simile». Più in particolare, il 𝐶𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑁𝑖𝑘𝑒́ – come sarebbe stato definito – bandì la parola οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎), sostenendo che «le Scritture non menzionano affatto l’ousia del Padre e del Figlio». Inoltre, dichiarò che «il Figlio è simile al Padre come dichiarano ed insegnano anche le Sacre Scritture». In seguito, la delegazione fece rientro ad Ariminum, ove i vescovi, tenuti in ostaggio per ordine del sovrano, ed abilmente ingannati nel frattempo, approvarono a loro volta la formula di Niké. Questa fu poi confermata in un ulteriore concilio, tenuto a Costantinopoli nel 360. Il Figlio era «simile al Padre», non si doveva più parlare né di οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎) né di ὑπόστασις (ℎ𝑦𝑝𝑜̀𝑠𝑡𝑎𝑠𝑖𝑠): come avrebbe scritto san Girolamo (†420), «il mondo, sgomento, si ritrovò ariano».

4. Dal rientro in patria alla morte

Forse per volere di Costanzo o forse grazie ad una fuga, nel 360 Ilario rientrò in patria. Nel medesimo anno, o nel seguente, presiedette un sinodo a Lutetia (moderna Parigi) che ribadì il Credo niceno e condannò i vescovi filoariani, fra cui quello di Arelate (odierna Arles, Francia), Saturnino (†365?), «uomo detestabile e carico di crimini», sostituito con san Concordio (†385?). Tale riunione segnò la fine dell’eresia in Gallia, e l’inizio del suo forte indebolimento nel resto dell’Occidente. Tuttavia, alcuni presuli eretici riuscirono a restare tenacemente in sede, e fra costoro Aussenzio di Milano (†374). Questi fu avversato proprio da Ilario, fiancheggiato da sant’Eusebio di Vercelli (†371?), e condannato in un sinodo romano presieduto da papa san Damaso I (†384). Tuttavia, riuscì ad ingannare l’augusto ortodosso Valentiniano I (321-375), ad ottenerne l’appoggio, e quindi a conservare la cattedra fino alla morte. Suo successore sarebbe stato sant’Ambrogio (†397) … ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta. Negli ultimi anni della sua vita, Ilario si dedicò al ministero pastorale. Si spense nel 367. Presto canonizzato, nel 1851 è stato proclamato Dottore della Chiesa.

5. Opere

Ilario fu autore fecondo ed alcuni suoi scritti, sebbene talvolta contorti, rivestono un certo valore come fonti storiche. Fra questi, ad esempio, il 𝐷𝑒 𝑠𝑦𝑛𝑜𝑑𝑖𝑠, l’𝐴𝑑𝑣𝑒𝑟𝑠𝑢𝑠 𝑉𝑎𝑙𝑒𝑛𝑡𝑒𝑚 𝑒𝑡 𝑈𝑟𝑠𝑎𝑐𝑖𝑢𝑚, il 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 𝐶𝑜𝑛𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖𝑢𝑚 𝑖𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒𝑚 ed il 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 𝐴𝑟𝑖𝑎𝑛𝑜𝑠 𝑣𝑒𝑙 𝐴𝑢𝑥𝑒𝑛𝑡𝑖𝑢𝑚 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑜𝑙𝑎𝑛𝑒𝑛𝑠𝑒𝑚. In ogni modo, la fama del Dottore di Poitiers è legata al 𝐷𝑒 𝑇𝑟𝑖𝑛𝑖𝑡𝑎𝑡𝑒. Con solidissime argomentazioni, l’Autore dimostra la distinzione fra le persone del Padre e del Figlio, l’unità della loro natura, la piena divinità del Figlio e la sua eterna generazione.

Allo Spirito Santo, Ilario mai assegna il nome di Dio, e neppure lo definisce 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎. Ne dovrebbe discendere che l’opera, ancorché di notevole valore esegetico, dogmatico ed apologetico, non sarebbe da considerare come un completo trattato sulla Trinità. Piuttosto, come uno scritto con cui l’Autore, 𝑎𝑑𝑒𝑔𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜𝑠𝑖 alla polemica che coinvolgeva il Padre ed il Figlio, volle manifestare la sua fede nei riguardi della piena divinità del secondo. Del resto, il titolo con cui il lavoro di Ilario è attualmente noto è attestato soltanto dal VI secolo: in precedenza, era conosciuto come 𝐷𝑒 𝐹𝑖𝑑𝑒. Quanto precede è vero in parte. Infatti, non si può non rilevare, in primo luogo, che il vescovo di Pictavium sviluppa il suo pensiero teologico partendo dall’analisi del brano evangelico in cui Gesù comanda di battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Matteo 28, 19). Scrive Ilario: «𝑢𝑛𝑎 𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑛𝑧𝑎 [il Padre] 𝑑𝑎 𝑐𝑢𝑖 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑐𝑒𝑑𝑜𝑛𝑜, 𝑢𝑛𝑎 𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑒𝑛𝑖𝑒 [il Figlio] 𝑝𝑒𝑟 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑒, 𝑢𝑛𝑜 𝑒̀ 𝑖𝑙 𝑑𝑜𝑛𝑜 [lo Spirito Santo] 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑖 𝑒𝑙𝑎𝑟𝑔𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎. 𝑁𝑒́ 𝑠𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑎̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑎𝑛𝑐ℎ𝑖 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑎 𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑡𝑎𝑙 𝑝𝑖𝑒𝑛𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎, 𝑛𝑒𝑖 𝑛𝑜𝑚𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑃𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑑𝑒𝑙 𝐹𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑜 𝑆𝑎𝑛𝑡𝑜, 𝑙’𝑖𝑚𝑚𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡𝑎̀ 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝐸𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜, 𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑖𝑓𝑒𝑠𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝐼𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒, 𝑖𝑙 𝑔𝑜𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝐷𝑜𝑛𝑜». Inoltre, da vari altri passi del 𝐷𝑒 𝑇𝑟𝑖𝑛𝑖𝑡𝑎𝑡𝑒, si evince che lo Spirito Santo, nel trattato stesso, riceve comunque un riconoscimento come 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 in ragione della sua attività per gli uomini e per la Chiesa, e soprattutto per la sua intima associazione con il Padre ed il Figlio. Tale associazione emerge in particolare nella preghiera con cui Ilario conclude l’opera: «𝐹𝑎’, 𝑜 𝑆𝑖𝑔𝑛𝑜𝑟𝑒, 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑜 𝑚𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑡𝑒𝑛𝑔𝑎 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑓𝑒𝑑𝑒𝑙𝑒 𝑎 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 ℎ𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑒𝑠𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑆𝑖𝑚𝑏𝑜𝑙𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑟𝑖𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑏𝑎𝑡𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑃𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑛𝑒𝑙 𝐹𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑜 𝑆𝑎𝑛𝑡𝑜. 𝐶ℎ𝑒 𝑖𝑜 𝑎𝑑𝑜𝑟𝑖 𝑡𝑒, 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑃𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑒𝑚𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑡𝑒 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝐹𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜; 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑜 𝑚𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑜 𝑆𝑎𝑛𝑡𝑜, 𝑖𝑙 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑐𝑒𝑑𝑒 𝑑𝑎 𝑡𝑒 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑈𝑛𝑖𝑔𝑒𝑛𝑖𝑡𝑜 […]. 𝐴𝑚𝑒𝑛».

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