Sant’Atanasio di Alessandria
1. Dalla nascita al primo esilio
Sant’Atanasio, Dottore della Chiesa, nacque probabilmente ad Alessandria verso il 295. Dopo un’ottima formazione classica, ebbe come suo maestro, presso la scuola catechetica, san Pietro I (†311), vescovo della stessa città. Assunta la decisione di abbracciare la vita monastica, si trasferì nel deserto, dove conobbe sant’Antonio abate (251/252-356?), suo maestro di vita, e quindi rientrò nel centro egiziano. Qui divenne diacono e segretario del metropolita sant’Alessandro (†328), che accompagnò al concilio di Nicea, ove si conquistò l’odio degli eretici, acuitosi nel 328, dopo la sua elezione a vescovo. Agli ariani si unirono i meleziani, e costoro, tutti insieme, imputarono ad Atanasio violenze nei loro confronti. Così, nel 331, questi dovette recarsi presso Costantino I (†337) per discolparsi, riuscendoci abilmente e guadagnando la sua benevolenza. Tuttavia, due anni dopo, lo stesso vescovo rifiutò di riaccogliere Ario (†336), riabilitato dall’imperatore, nella sua Chiesa, ed in conseguenza gli eretici tornarono alla carica. Alla loro testa c’era Eusebio (†341/342), vescovo di Nicomedia (moderna İzmit, Turchia), ormai nelle grazie di Costantino. Nel 335, un concilio a maggioranza ariana, riunito a Tiro, condannò Atanasio sulla scorta di infamanti accuse. Per l’effetto, l’imperatore, pur senza deporlo, lo esiliò ad Augusta Treverorum (odierna Treviri, Germania).
2. La fuga a Roma. Il papa san Giulio I ed i concili del 341.
Dopo la morte di Costantino, Atanasio ottenne da Costanzo II (317-361), sovrano d’Oriente, di tornare in sede, ove fu accolto trionfalmente. Gli eusebiani, però, ottennero presto il favore imperiale e già nel 339 sistemarono sulla sede episcopale di Alessandria il loro Gregorio di Cappadocia (†348). Costretto con la forza ad abbandonare la città, il legittimo vescovo si rifugiò a Roma, presso il pontefice san Giulio I (†352). A questi, Atanasio indicò l’abbandono del simbolo niceno, in Oriente, come consenso 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡 alle tesi di Ario. Pertanto, egli era una vittima, perché avversario di quella dottrina. In realtà, la versione dell’alessandrino non corrispondeva del tutto al vero: all’epoca, infatti, nell’Oriente romano, all’accantonamento del Credo di Nicea si accompagnava un certo distacco dalle tesi ariane più estreme.
Il papa sposò la causa del vescovo: non tanto perché voleva entrare nella questione ariana, di cui sapeva poco – l’Occidente, rispetto all’Oriente, soffriva da decenni di grave arretratezza dottrinale –, quanto perché intendeva celebrare il primato d’onore, che tutta la cristianità tradizionalmente gli riconosceva, come vero e proprio primato giurisdizionale. In altri termini, Giulio voleva arrogarsi il diritto di essere giudice di appello su divergenze insorte fra i presuli di tutte le aree del mondo cristiano.
Così, nel 340 scrisse a Eusebio di Nicomedia – che da due anni occupava la cattedra di Costantinopoli – e ad altri ecclesiastici d’Oriente per invitarli ad un concilio, a Roma, in cui riesaminare la questione di Atanasio. Lo stesso Eusebio rispose che gli orientali ammettevano la rilevanza della sede romana, ma non si reputavano inferiori ad essa. Le accuse contro il vescovo di Alessandria furono quindi ribadite, con minaccia di scisma se il pontefice fosse rimasto in comunione con lui. Giulio rimase deluso, ma non si scoraggiò: nel 341, convocò comunque un sinodo, in cui i circa cinquanta presenti assolsero Atanasio e con lui altri presuli costretti all’esilio. Subito dopo, scrisse ancora ad Eusebio ed a vari altri vescovi per informarli dell’esito, sottolineando polemicamente l’atteggiamento ariano degli oppositori del primate alessandrino, ma anche lamentando irregolarità della procedura del concilio di Tiro del 335 e della nomina di Gregorio di Cappadocia a suo successore. Tale epistola provocò una forte reazione dei presuli orientali, che nello stesso 341 si riunirono, in numero di circa cento, ad Antiochia, confermando la condanna di Atanasio, che fu anche deposto. Tale sinodo, però, non si limitò a tali provvedimenti. I convenuti ribadirono l’allontanamento dalle tesi ariane più estreme, e pur non facendo esplicito riferimento al simbolo di Nicea, pubblicarono una formula di fede a quello contraria. Da tale formula, nota come Credo della Dedicazione, fu esclusa l’espressione «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre».
Pertanto, i concili del 341, e la lettera del pontefice fra i due, rappresentarono un momento fondamentale nel tormentato iter della controversia ariana, in quanto comportarono l’intervento diretto, in essa, dell’Occidente. Qui, infatti, il prestigio e l’autorità di Giulio I erano tali che, soprattutto in materia di dottrina, egli orientava l’atteggiamento dell’intero episcopato. In altri termini, il contrasto fra le due parti dell’impero, fino ad allora limitato a questioni di persone, si era esteso al campo dottrinale, e nel nulla cadde il tentativo di una delegazione orientale di raggiungere un’intesa ed inviata a questo scopo a Milano, ove risiedeva Costante (†350), sovrano d’Occidente e germano di Costanzo. Soltanto un concilio generale, in cui tutti i vescovi dell’impero potessero confrontarsi in modo diretto, poteva dare una svolta. Questo almeno era il pensiero di Atanasio, con cui Giulio concordava.
3. I concili di Serdica e di Filippopoli
Allo scopo poc’anzi richiamato, il papa, il presule di Alessandria ed altri ecclesiastici ortodossi fecero pressioni su Costanzo II, riluttante per la ritrosia manifestata in proposito dall’episcopato orientale. Tuttavia, lo stesso imperatore, pressato dal fratello, finì per cedere, e come sede per il concilio fu scelta Serdica (moderna Sofia, Bulgaria), situata nella parte dell’impero retta da Costante, ma praticamente al confine con quella orientale. Probabilmente, Atanasio e Giulio – che sarebbe stato rappresentato dai presbiteri Archidamo e Filosseno e dal diacono Leone – ritenevano di poter prevalere sugli ecclesiastici orientali facendo leva sia sui loro disaccordi interni sia sulla compattezza del fronte occidentale, per altro capeggiato da sant’Osio di Cordova (256/258-358), ultraottantenne, ma ancora influente e battagliero. Tali plausibili pensieri o speranze, però, furono presto vanificati. Difatti, i lavori conciliari, poco dopo il loro inizio, si interruppero per una questione di carattere procedurale: gli occidentali volevano farvi partecipare a pieno titolo il vescovo di Alessandria e gli altri esuli che il concilio di Roma, nel 341, aveva riabilitato, ma gli orientali si opposero. Questi ultimi consideravano validi i vari deliberati sinodali di condanna e deposizione a carico di Atanasio e degli altri presuli banditi dalle loro sedi, con la conseguenza che il pronunciato romano non aveva alcun valore. La discussione era ancora su posizioni contrapposte quando gli orientali decisero di rompere gli indugi: abbandonarono Serdica e si riunirono a Filippopoli (odierna Plovdiv, Bulgaria). Proprio per tale ragione, il concilio del 343 non è riconosciuto come ecumenico. Nella nuova sede, la condanna di Atanasio fu confermata, e contestualmente furono scomunicati i maggiori esponenti di parte avversa, fra cui Giulio I. Gli occidentali, che non si mossero da Serdica, agirono in modo diametralmente opposto, oltre a ribadire la fede nicena e stabilire il diritto di un presule deposto da un sinodo provinciale di appellarsi al vescovo di Roma. Per la prima volta nella storia della Chiesa, si era verificata una frattura ufficiale tra le cristianità di Oriente e d’Occidente. Lo scisma, però, avrebbe significato la guerra, e fu quindi evitato.
4. Dal rientro ad Alessandria nel 346 al concilio di Arles nel 353
Nel 346, Atanasio poté far rientrò ad Alessandria grazie all’intervento diretto di Costante (†350). I quattro anni successivi furono per lui di quiete, e fu in questo periodo che consacrò vescovo san Frumenzio (†383?), l’evangelizzatore dell’Abissinia. Agli inizi del 350, però, il sovrano occidentale fu ucciso, e due anni dopo morì anche Giulio I, con Liberio (†366) eletto al suo posto. Quando il vescovo perse il secondo dei suoi protettori, Costanzo II (317-361) aveva già iniziato la sua trionfale marcia verso Ovest per liberarsi dell’usurpatore Magnenzio, definitivamente sconfitto, e poi suicidatosi, nel 353. In conseguenza, l’ormai unico imperatore ebbe mano libera per perseguire la sua politica religiosa, volta a raggiungere l’unità nella Chiesa: naturalmente secondo la sua fede, di stampo filoariano. In quest’ottica, il maggiore ostacolo era rappresentato, secondo lo stesso sovrano, proprio da Atanasio, che con opere e prediche, molto seguite dai fedeli, difendeva la consustanzialità fra Padre e Figlio, schierandosi apertamente contro la dottrina che la negava. Costanzo, quindi, agì allo scopo di far approvare le condanne a quegli inflitte in precedenza – mai realmente cassate – anche dai presuli occidentali. Così, nel 353 intervenne personalmente nel concilio di Arelate (oggi Arles, Francia) – richiesto da Liberio e concesso dallo stesso sovrano – per accusare Atanasio di fronte a vescovi terrorizzati dalla sua presenza, e comunque già blanditi da colleghi ligi ai voleri imperiali. Soltanto san Paolino di Treviri (300-358) resistette, e per questo fu esiliato in Frigia (nell’odierna Turchia).
5. Il concilio di Milano del 355
Gli esiti di Arelate delusero il papa, che provò quindi ad insistere presso Costanzo, cui, nel 354, fece recapitare l’epistola Obsecro. In questa, Liberio scrisse che un sinodo riunito a Roma, nel 353, aveva dato ragione ad Atanasio, il quale, per altro, era anche stato sostenuto da un concilio egiziano, del medesimo 353, in cui il numero di presenti era superiore a quello che, in Gallia, ne aveva decretato la condanna. Lo stesso pontefice, inoltre, affermò di non poter entrare in comunione con i vescovi d’Oriente, dati il loro atteggiamento filoariano e la loro ostilità al vescovo di Alessandria, ed infine domandò la convocazione di un nuovo concilio, in cui discutere ancora sullo stesso metropolita, ma pure dibattere sulla validità dei deliberati niceni.
L’imperatore accettò l’istanza, e nel 355 i presuli furono riuniti a Milano. Sant’Eusebio di Vercelli (†371?) chiese ai convenuti che la condanna di Atanasio fosse invalidata e che il simbolo di Nicea fosse confermato. Gli si opposero ecclesiastici fedeli alle direttive di Costanzo i quali non ebbero difficoltà a piegare colleghi che, sebbene in maggioranza, si dimostrarono poco battaglieri, anche per il timore di incorrere nelle ire imperiali. Così, il provvedimento nei confronti del metropolita alessandrino fu ribadito e approvato da quasi tutti i presenti. I tre soli dissidenti – lo stesso Eusebio di Vercelli, san Lucifero di Cagliari (†370?) e san Dionigi (o Dionisio) di Milano (†360/361?) – furono deposti ed esiliati in Oriente. Stessa sorte, nei due anni successivi, sarebbe toccata a sant’Ilario (†367), vescovo di Pictavium (odierna Poitiers, Francia), a sant’Osio di Cordova (256/258-358) ed al pontefice, che fu relegato a Berea (attuale Veria, Grecia). Soltanto qui egli si sarebbe convinto a sconfessare Atanasio: per l’effetto, nel 358 sarebbe potuto tornare a Roma, ove intanto Costanzo aveva insediato sul soglio il diacono Felice II (†365), poi restituito alla santità dal rientro nell’ortodossia e dal martirio. Al rientro di Liberio, il popolo si schierò a suo favore, e l’antipapa si trovò costretto ad abbandonare l’Urbe.
Nota storica – Nel periodo intercorrente fra il 324 (Costantino unico imperatore) e il 395 (morte di Teodosio I), il primato dell’imperatore sulla Chiesa era fuori discussione. Pertanto, l’esilio di Liberio e la nomina a sostituto di Felice II, decretati da Costanzo, per quanto apparsi odiosi ai romani di allora (e detestabili dai posteri), erano formalmente regolari. Del resto, il sinodo di Milano, convocato dallo stesso sovrano, aveva riunito ecclesiastici di tutto l’impero, e dunque possedeva i crismi di un concilio ecumenico, sebbene oggi non rientri, per intuibili ragioni, fra quelli riconosciuti come tali. Ne discende che il rifiuto del papa di sottoscriverne i deliberati a danno di Atanasio era passibile, giusta la prassi dell’epoca, di deposizione (e quindi di nomina d’un sostituto) ed esilio. Soltanto nel 501, un sinodo romano convocato da Teodorico il Grande (454-526) avrebbe deliberato che un concilio non può mettere sotto accusa il papa.
6. Dalla fuga nel deserto al concilio di Alessandria del 362
A seguito della riunione milanese, un funzionario imperiale giunse ad Alessandria per comunicare la decadenza di Atanasio dalla sua carica, ma le genti del luogo si opposero al suo allontanamento. Agli inizi dell’anno successivo, all’intervento dell’esercito, esplosero dei tumulti, ed il vescovo si rifugiò presso i monaci del deserto, con il filoariano Giorgio (†361) insediato al suo posto.
Dopo la morte di Costanzo, Atanasio rientrò in sede, e qui, nel 362, presiedette un concilio. Questo ribadì il simbolo di Nicea, e condannò gli pneumatomachi, cioè i nemici dello Spirito Santo, coloro che ne negavano la divinità ritenendolo una creatura, affacciatisi da qualche anno sulla scena: «lo Spirito Santo non è creatura né è estraneo alla sostanza, bensì proprio e inseparabile dalla sostanza del Padre e del Figlio» (canone V). Si trattò di un momento fondamentale nella storia del cristianesimo e della sua disciplina, di un autentico punto di svolta. Il problema della consustanzialità fra Padre e Figlio, stabilita dal primo concilio ecumenico, si estese alla terza persona della Trinità, sotto questo aspetto 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑐𝑢𝑟𝑎𝑡𝑎 dai Padri niceni, che si erano limitati ad un generico «Crediamo… nello Spirito Santo». Quella intorno al 355/360 è dunque l’epoca in cui l’espressione teologia trinitaria, in precedenza generica, inizia ad assumere un senso rigoroso. Tuttavia, in quel 362 il linguaggio teologico era ancora incerto. Gli orientali, di lingua greca, utilizzavano i termini οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎) e ὑπόστασις (ℎ𝑦𝑝𝑜̀𝑠𝑡𝑎𝑠𝑖𝑠) per definire, rispettivamente, la sostanza e la persona. Gli occidentali, però, potevano intendere la seconda parola come corrispondente a 𝑠𝑢𝑏𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖𝑎: difatti, ὑπό (ℎ𝑦𝑝𝑜̀) equivaleva a 𝑠𝑢𝑏 e στάσις (𝑠𝑡𝑎𝑠𝑖𝑠) a 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖𝑎. Pertanto, parlare di tre υποστάσεις (ℎ𝑦𝑝𝑜𝑠𝑡𝑎𝑠𝑒𝑖𝑠) poteva essere recepito, dai latini, come tre sostanze. Ancora agli inizi del V secolo, sant’Agostino (354-430) avrebbe dovuto ribadire che, in latino, i termini greci οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎) e υποστάσεις (ℎ𝑦𝑝𝑜𝑠𝑡𝑎𝑠𝑒𝑖𝑠) corrispondevano, rispettivamente, ad essenza, o sostanza, ed a persone (𝐷𝑒 𝑇𝑟𝑖𝑛𝑖𝑡𝑎𝑡𝑒, V, 9). In quel 362, gli ecclesiastici riuniti ad Alessandria provarono ad affrontare la questione, ma non giunsero ad una soluzione e conclusero accettando la sinonimia fra 𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎 e ℎ𝑦𝑝𝑜̀𝑠𝑡𝑎𝑠𝑖𝑠: le espressioni «una ipostasi» e «tre ipostasi» erano dunque entrambe ortodosse.
7. Gli ultimi esili e la morte
Poco dopo tale riunione, Atanasio, per ragioni politiche, fu condannato ad un altro esilio da Giuliano (331-363). Riabilitato da Gioviano (†364), fu bandito ancora da Valente (†378) sul finire del 365, ma questo quinto confino durò soltanto qualche mese. Nel febbraio del 366 si reinsediò ad Alessandria, e qui trascorse gli ultimi anni della vita, che si concluse nel 373. Presto santificato, nel 1568 è stato proclamato Dottore della Chiesa.
8. Opere
L’opera più celebre di Atanasio è nota come 𝐷𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑉𝑒𝑟𝑏𝑖. In essa, quegli affermò come la morte non avesse più alcuna efficacia sugli uomini, poiché questi erano stati resi immortali dal Verbo, offertosi al sacrificio «nel suo immenso amore» dopo aver assunto «un corpo uguale al nostro, soggetto, come quello nostro, alla caducità». E nella sua morte e resurrezione, il «Santo dei Santi» aveva aperto un varco «all’intelligenza […] cristiana della divinità, un’intelligenza messa alla prova del reale, fuori della quale ogni teologia non è più che vana astrazione».
Il vescovo alessandrino fu anche autore di scritti storico-polemici ed esegetici, ma soprattutto della 𝑉𝑖𝑡𝑎 𝐴𝑛𝑡𝑜𝑛𝑖: la biografia di sant’Antonio abate, che in seguito avrebbe seminato, in Occidente, notevole entusiasmo per la vita monastica.
Quanto alla Trinità, Atanasio non ne ignorava l’unità. Difatti, nelle sue 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎 𝑆𝑒𝑟𝑎𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒 si può leggere che lo Spirito Santo «è consustanziale al Padre e al Verbo». Ed ancora più brillante fu un altro passaggio: «La santa benedetta triade è indivisibile ed una in se stessa. Quando menzioniamo il Padre, è incluso anche il Verbo e così anche lo Spirito, che è nel Figlio. Se si nomina il Figlio, il Padre è nel Figlio e lo Spirito non è fuori del Verbo, poiché vi è un’unica grazia, adempiuta dal Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito». A conclusioni analoghe il Dottore di Alessandria giunse nel suo 𝐷𝑒 𝑆𝑝𝑖𝑟𝑖𝑡𝑢 𝑆𝑎𝑛𝑐𝑡𝑜.