Cristianesimo e teologia – Capitolo XI

1. La controversia ariana: primordi.

Fra le crisi sofferte dal cristianesimo antico, la controversia ariana fu certamente la più grave. Questa iniziò fra la fine del III secolo ed i primi anni del successivo, quando Ario (†336) sostenne che Cristo non era Figlio di Dio in senso 𝑜𝑛𝑡𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑜, come imposto dalla tradizione, ma soltanto la più perfetta delle sue creature, definita Figlio in senso accomodante, diversa dal Padre per natura, e decisamente a lui inferiore per autorità e dignità. In altri termini, soltanto il Padre poteva ritenersi realmente Dio, non generato e non creato, eterno e immutabile, mentre il Figlio era stato creato dal nulla, e dunque c’era stato un tempo in cui non era esistito. L’eresiarca era giunto a tali conclusioni interpretando in maniera strettamente letterale alcuni passi delle Scritture, e in particolare: «il Padre è più grande di me» (Giovanni 14, 28); «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine» (Proverbi 8, 22); «Egli [il Figlio] è… il primogenito di ogni creatura» (Colossesi 1, 15).

2. Ario

Originario della Cirenaica, Ario fu discepolo di Luciano di Antiochia (†312), teologo controverso, forse eretico (adozionista). Giunto ad Alessandria, fu ordinato presbitero in una chiesa nel quartiere Baucalis, ove, secondo la tradizione, era morto, nella seconda metà del I secolo, san Marco evangelista. Nella stessa città, cominciò a diffondere le proprie tesi. Scomunicato, verso il 300, dal vescovo san Pietro I (†311), fu riabilitato dal successore di questi, sant’Achilla (†313), che gli consentì di riprendere la predicazione. Dopo il breve episcopato dello stesso Achilla, Ario si candidò a subentrargli, in opposizione a sant’Alessandro (†328), ma fu quest’ultimo a prevalere. Tale metropolita – uomo paziente e di grande benevolenza – per qualche anno tollerò le dottrine del presbitero, ma nel 317 o 318 convocò un sinodo che le condannò. L’eresiarca, però, continuò imperterrito a divulgare i suoi temi, ed anche il tentativo di metterlo a tacere, compiuto da sant’Osio di Cordova (256/258-358) su incarico di Costantino (†337), risultò vano. Si rese quindi necessario un secondo intervento. Nel 321, Alessandro radunò un centinaio di presuli nella sua città, e costoro, in due sessioni – talvolta erroneamente indicate, nelle fonti, come concili diversi –, deposero Ario, e con lui altri ecclesiastici, fra cui i vescovi Secondo di Tolemaide (odierna Tolmeita, Libia) e Teonatte di Marmarica. Quegli si rifugiò prima a Cesarea di Palestina (oggi in Israele), e poi a Nicomedia (moderna İzmit, Turchia), presso un antico condiscepolo di Luciano: il potente vescovo Eusebio (†341/342) che gli concesse il suo appoggio e la sua protezione. Così, le dottrine dell’eresiarca si diffusero in tutto l’Oriente, per coinvolgere poi anche l’Occidente. Il dibattito teologico successivo sarebbe durato oltre mezzo secolo.

3. Le conseguenze della questione ariana.

La questione ariana, storicamente, è la più ricca di conseguenze religiose. Fu un continuum di contrasti e tentativi per chiarire concetti e definire termini, di sinodi e scomuniche, di violenze e sottili manovre diplomatiche. Quando la crisi ebbe inizio, i vescovi potevano ancora seguire una loro politica, manifestando opinioni proprie, ignorando i colleghi e, entro certi limiti, le autorità statuali. Quando la stessa controversia terminò, era stato definito uno dei principali dogmi cristiani e fissato un credo universale. La Chiesa era stata disciplinata in grandi patriarcati ed era nato lo strumento del concilio ecumenico, ossia del raduno dei presuli di tutte le comunità. In più, la questione ariana si incastra in altre vicende di enorme rilievo, fra cui le prime fratture fra la Chiesa latina e quella orientale, premonitrici di quello che sarà il definitivo distacco fra le due; l’adozione del cristianesimo come religione ufficiale; le migrazioni dei popoli germanici; le iniziali violente crisi dell’impero d’Occidente. Tutta insieme, una grande pagina di storia. Tramontò il mondo antico, e sia pure confusamente si iniziò ad intravedere quello che sarebbe stato il Medioevo.

4. Il concilio di Nicea.

Nel 324, dopo le sue vittorie su Licinio (†325), Costantino, diventato unico sovrano, intendeva ridonare all’impero unitarietà, anche religiosa. In Oriente, però, i cristiani erano divisi, e così nell’Africa, lacerata dallo scisma donatista. Così, accettò il suggerimento – probabilmente di Osio, che era suo consigliere in materia ecclesiale – di convocare i vescovi: tuttavia, non di una singola regione, ma di tutto l’impero. Lo stesso Costantino, quindi, invitò a Nicea (attuale İznik, Turchia) i circa 1.800 presuli della Chiesa – un migliaio gli orientali ed intorno agli ottocento gli occidentali – ma soltanto alcuni raggiunsero quella sede. Il numero esatto dei partecipanti al primo concilio ecumenico della storia è sconosciuto: gli storici contemporanei oscillano fra 250 e 330; le fonti antiche riferiscono di 318.

Qualunque fosse la cifra, nessun dubbio che l’imperatore – presidente del sinodo – agì allo scopo di ricomporre la controversia e per far adottare un simbolo di fede che rappresentasse il caposaldo dell’ortodossia e quindi dei vescovi. Questi ultimi, però, erano divisi e preoccupati: in particolare, quelli provenienti dalla Siria e da varie aree della moderna Turchia occidentale temevano fortemente il modalismo sabelliano, ed erano comunque sotto l’influenza del pensiero di Origene (†251/253). Si trattava, in buona sostanza, di ecclesiastici che, pur considerando esagerate le dottrine ariane, ritenevano, allo stesso tempo, che potesse essere pericoloso orientarsi verso una tesi diametralmente opposta a quella del cirenaico. Pertanto, la formula di Eusebio di Nicomedia fu respinta, perché troppo favorevole ad Ario, e quindi inammissibile sia per gli alessandrini sia per l’Occidente. Subito dopo, però, vi furono istanti in cui regnò l’incertezza. Allora, Eusebio (†339/340), presule di Cesarea di Palestina (e celebre storico), propose un simbolo, ma subito intervenne un energico diacono, che aveva accompagnato il suo vescovo al concilio. Quel diacono era sant’Atanasio di Alessandria (†373). Così, alla formula eusebiana furono aggiunte alcune espressioni: non molte, ma decisamente antiariane. Il Figlio era γεννηϑέντα οὐ ποιηϑέντα (𝑔𝑒𝑛𝑛𝑒𝑡ℎ𝑒𝑛𝑡𝑎 𝑜𝑢 𝑝𝑜𝑖𝑒𝑡ℎ𝑒𝑛𝑡𝑎), cioè «generato e non creato», e soprattutto ὁμοούσιον τῷ Πατρί (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑛 𝑡𝑜 𝑃𝑎𝑡𝑟𝑖̀), ossia «consustanziale al Padre». In realtà, il termine ὁμοούσιος (ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠), se poteva soddisfare gli ecclesiastici occidentali, per i quali corrispondeva a 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑏𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖𝑎𝑙𝑖𝑠, usato già da Tertulliano (†235/240?), fu osteggiato da molti dei padri conciliari, i quali affermarono che non era presente nelle Scritture. Nondimeno, le tenaci argomentazioni di Atanasio, sostenute da alcuni vescovi, e soprattutto dall’autorità di Osio, sconfissero le resistenze della maggioranza.

Lo Spirito Santo, all’epoca non ancora coinvolto nelle dispute teologiche, ebbe soltanto un breve richiamo nel simbolo di fede: un generico καὶ εἰς τὸ Ἅγιον Πνεῦμα (𝑘𝑎𝑖 𝑒𝑖𝑠 𝑡𝑜 𝐻𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛 𝑃𝑛𝑒𝑢𝑚𝑎), che significa «e [crediamo] nello Spirito Santo».

Il Credo niceno si concluse con anatema per le dottrine che sostenessero, fra l’altro, «c’è stato un tempo in cui [il Figlio] non c’era», oppure «[il Figlio] è stato creato dal nulla». L’arianesimo non fu direttamente richiamato, ma la condanna, nei confronti di esso, fu comunque esplicita. Tuttavia, in tale parte finale della formula si utilizzarono come sinonimi i termini οὐσία (𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎) e ὑπόστασις (ℎ𝑦𝑝𝑜̀𝑠𝑡𝑎𝑠𝑖𝑠).

Da quanto rilevato, risulta evidente come il simbolo di Nicea fu approvato fra perplessità verso il nuovo termine ℎ𝑜𝑚𝑜𝑜𝑢𝑠𝑖𝑜𝑠, 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒𝑟𝑒𝑧𝑧𝑎 verso lo Spirito Santo e confusione fra 𝑜𝑢𝑠𝑖𝑎 e ℎ𝑦𝑝𝑜̀𝑠𝑡𝑎𝑠𝑖𝑠. In tutto questo si nascose il bacillo di altri lunghi e gravi dibattiti.

5. La reazione anti-nicena

Conseguita l’unione, Costantino volle imporla: Ario e gli ecclesiastici non sottoscrittori del Credo furono esiliati, e con loro pure Eusebio di Nicomedia: per ragioni, per altro, rimaste ignote, atteso che era stato fra i firmatari della formula stessa. In ogni modo, se questa fu accettata serenamente in Occidente, l’Oriente, invece, vi rinvenne tracce di monarchianismo sabelliano, e quindi temette si fossero assunte decisioni precipitose. Fra l’altro, come già accennato, quel Credo era stato approvato soprattutto per l’energia di Atanasio e l’autorità di Osio, e quindi non a seguito di una discussione che persuadesse tutti, o quasi, i padri conciliari delle insidie presenti nelle dottrine ariane. In altre parole, la sconfitta dell’eresia non era dipesa da una volontà comune dei vescovi. In questo clima, l’abile Eusebio di Nicomedia, agendo con le dovute cautele, seppe farsi richiamare dall’esilio e riconquistare i favori di Costantino, che presto lo elevò al rango di consigliere in materia religiosa al posto di Osio. Lo stesso Eusebio, inoltre, raccolse intorno a sé un partito, sfruttando gli antichi contrasti tra i presuli della Palestina e dell’Asia e quelli dell’Egitto. Evidentemente, l’imperatore – che, di là di vari meriti, non era certo un esperto teologo – dovette pensare che la maggioranza degli ecclesiastici, in quell’Oriente ormai diventato la parte principale del suo impero, non era poi così ostile alle dottrine ariane. Probabilmente, ritenne che queste erano più vicine, rispetto a quelle ortodosse, a quel vago monoteismo in cui lui stesso era stato educato. In fondo, Ario considerava Cristo una creatura: superiore agli uomini, e quindi ai sovrani, ma da questi non troppo diverso. La stessa Chiesa, pertanto, diventava un’istituzione umana, e dunque priva di origini divine, e come tale eccellente strumento di governo nelle mani di un imperatore che riuniva in sé ogni potere.

Iniziò così la reazione anti-nicena. Le conseguenze, come si vedrà nei prossimi capitoli, sarebbero state tali che la fede avrebbe rischiato seriamente di sprofondare nei profondi abissi dell’eresia.

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