I. ANTEFATTO
Il 10 agosto 1487 – giorno della sua morte – Roberto aveva sessantanove anni, e alle spalle un’intera vita spesa a combattere per l’Italia. “L’età avanzata – scrive Sigismondo de’ Conti (1432-1512) – non gli toglieva la forza di bene maneggiar le armi e reggersi sul cavallo; il suo volto presentava tutta la maestà di un grande capitano“.
Famoso per l’alto valore militare, il genio strategico e il coraggio, Roberto Sanseverino fu non a torto considerato il più grande capitano di ventura del suo tempo e battezzato nuovo Marte, a tal punto che – malgrado avesse subito anche sconfitte – fu festeggiato col titolo di “invittissimo“.
Il 1486 non era stato un anno fruttuoso per lui: allontanatosi dalla condotta di Venezia, era passato a servire lo Stato Pontificio nella guerra dei baroni contro il re di Napoli, ma ne aveva avuto storpiato il figlio prediletto Fracasso – colpito in faccia da uno scoppio d’archibugio – ed era stato costretto a sciogliere la compagnia per darsi ad una ignominiosa fuga quando, tradito dal Papa che aveva cambiato alleanze, si era ritrovato improvvisamente in territorio ostile, senza vettovaglie e inseguito dal duca di Calabria con la furia alle spalle.
II. LA ROTTA DI CALLIANO
Si riprese comunque egregiamente l’anno seguente, quando tornò a essere capitano generale della Signoria di Venezia nella guerra contro Sigismondo d’Austria. Qui trovò la morte: essendo in campo verso Rovereto, ai confini coi tedeschi, con diciotto squadre di uomini d’arme e altri cavalleggeri e fanterie, attraversò il fiume Adige con un ponte di barche nei pressi di Calliano.
Come i tedeschi s’avvidero di questo transito, misero in armi tutti i soldati che avevano e chiamarono a raccolta i montanari circonvicini per dare contro al nemico. Assalito all’improvviso, Roberto ordinò la ritirata ma, appena giunto al ponte, s’avvide che questo era stato deliberatamente tagliato dal connestabile Andrea dal Borgo, che ne era a guardia, per timore che i nemici passassero, o, secondo altri, per costringere i veneziani a combatterli. Secondo un’altra versione ancora, il ponte non fu tagliato, ma si ruppe da solo per la furia dei fanti che lo attraversavano nella loro fuga disordinata; ma, in ogni caso, Andrea dal Borgo fu condotto in catene a Venezia, accusato di aver causato la morte del grande capitano per non avergli dato soccorso.
III. UNA MORTE CONTROVERSA
Nella confusione e nello sbigottimento generale, nessuno fu capace di dire con certezza quali furono gli ultimi istanti del grande capitano. Secondo Bernardino Zambotti, cronista ferrarese, Roberto, vistosi ormai intrappolato, esortò i propri soldati a volgersi contro ai nemici e a voler morire combattendo valorosamente, ma non vi fu verso di trattenerli. Egli allora, rimasto con un pugno di valorosi, combatté strenuamente finché non fu ferito da colpo mortale alla gola, dicendo di “volere più presto morire che anegarse in l’aqua como feceno molti“.
Della stessa opinione si mostra lo storico milanese Bernardino Corio (1459-1519): “Ruberto Sanseverino come abandonato restò fra i nimici, facendo prova di ottimo capitano, et di privato soldato; et quantunque crudelmente fosse ferito, nondimeno valorosamente combatteva con quella spada, con la quale non solo in tutta Italia, ma ancho fra gli esserciti barbari, tante volte haveva havuto felicissima vittoria, dando la morte a molti, ch’el circondavano. Finalmente per l’effusione del sangue, che per le havute ferite spargeva, mancandogli in tutto l’humana forza, gloriosamente della vita restò privato, fra le folte schiere de’ nimici, essendo in età di settanta anni“.
Messer Pedro, suo segretario, affermò che, prima di morire, Roberto ricevette una ferita di spada all’occhio, due di schioppetto: l’una al braccio e l’altra al ginocchio; un colpo di spada alla mano destra e infine uno, mortale, di lancia al collo. Secondo un’altra fonte venne invece trafitto a morte da un soldato colleonesco e spinto nel fiume.
Versione totalmente diversa offrì il suo grande nemico, Ludovico Sforza, il quale – compiacendosi di vedere riflessa in altrui una viltà ch’era in verità la propria – lo dipinse fantasiosamente mentre più volte tenta, invano, di passare il fiume, e morto non in battaglia, bensì lungo il tragitto verso Trento, dove doveva essere condotto prigioniero.
Più cauto fu lo storico Sigismondo de’ Conti, il quale scrisse: “se Roberto perisse nelle acque o sotto il ferro nemico non si poté sapere, dappoiché, cercato a lungo, non si rinvenne né vivo né morto“.
IV. LE ESEQUIE
La sua salma fu recuperata giorni dopo dalle acque dell’Adige, sfigurata e riconoscibile solo dall’armatura e da un anello che portava al mignolo, e inumata dai tedeschi nella cattedrale di Trento, ove gli innalzarono un monumento funebre il quale, pur celebrandone derisoriamente la sconfitta, ugualmente ne mostra tutta la maschia fierezza e la maestosità. Solo nel 1498 i figli riuscirono a riscattarla e la seppellirono a Milano con «funerali da imperatore».
D’indole scaltra, approfittatrice, orgogliosa, e al contempo iracondo, focoso, irruento, Roberto fu un uomo di bassa statura, dagli occhi grandi, i tratti del viso spigolosi, la mascella squadrata e una fluente chioma castagniccia che gli scendeva fino alle spalle. Ebbe due o tre mogli e lasciò dietro di sé una trentina di figli, di cui almeno la metà maschi, e tutti quanti condottieri, due dei quali morirono con lui a Calliano.
Gli succedette come governatore generale il genero Guido de’ Rossi, distintosi per ingegno e autorità durante il conflitto, mentre al comando delle truppe paterne il figlio Fracasso, il quale, per quanto non fosse punto inferiore al padre né nell’indole né nelle capacità, non godé la sua stessa fortuna.
Di Roberto si possono ben ripetere quelle stesse parole che Lucano, un millennio e mezzo prima, aveva scritto nella sua suggestiva Farsalia: “La morte stessa più volte arretrò davanti a lui, e invano fu dato a un nemico di versare l’odiato sangue“.
Nel Palazzo ducale di Venezia, in sua memoria, fu posto questo epitaffio latino:
«Domatore delle guerre, Roberto della stirpe Sanseverina, il quale era al nostro tempo un altro Cesare, la virtù del quale conobbe la ferrea Ferrara, inorridì l’Emilia e tremò Roma superba. Frenò le fazioni di Genova e il ligure superbo, terrore d’Italia e spavento dei teutonici. L’invida Fortuna governi dopo i fati di Trento: ciò che non la vita a sé, diede una morte inattesa.»
Antonio Tebaldeo, fra i tanti, lo ricordò in questo commovente sonetto:
«Non potendo per forza ingegno ed arte
Spenger il tuo valor constante e forte
L’empia fortuna s’accordò con Morte
Che te assediaro da ciascuna parte.
Ma non fé mai di sé tal prova Marte
Qual fatto hai tu con le tue squadre accorte,
Ed hai morendo tante genti morte,
Che di te sarà scritto in mille carte.
Nulla giova acquistare in terra onore
Ed ogni nostro affaticare è vano;
Quel solo ha gloria eterna che ben more;
Morto, Roberto, sei con l’arme in mano:
Bel fine a te, che gli è gran disonore
Morir in su le piume un capitano.»
V. LE FONTI
– Le vite dei dogi (1474-1494) Di Marino Sanuto, Angela Caracciolo Aricò · 1989;
– Diario ferrarese dall’anno 1476 sino al 1504, Bernardino Zambotti, pp. 188-189;
– Bernardino Corio, L’historia di Milano, 1565.
– Roberto Sanseverino (1418-1487), un grande condottiero del Quattrocento tra il regno di Napoli e il ducato di Milano, Mattia Casiraghi;
– Roberto da Sanseverino, di Roberto Damiani, Condottieri di Ventura.