Il pre-giudizio storico.
Ecclesiae carnalis/Ecclesiae spritualis.
Il primo Giubileo.
Un anacoreta umile che amava vivere tra le montagne del Morrone e della Maiella divenne Papa, acclamato dalle folle come santo, mise in crisi il diritto Canonico con la sua abdicazione e spaccò la curia romana “costringendo” il suo successore a rincorrerlo per mezza Italia per paura di uno scisma, gettò le basi per il trasferimento ad Avignone della sede apostolica. Ma come iniziò tutto questo? Come fu possibile? La sua storia, assai nota e ricca di documenti, può essere letta in tanti modi.
Cominciamo dalla rocambolesca elezione al Soglio pontificio.
Morto Papa Niccolò IV il 4 aprile 1292, i cardinali che dovevano riunirsi erano 12. Diversi luoghi di Roma furono adattati per il Conclave senza successo (Santa Maria sopra Minerva, Santa Maria Maggiore e sull’Aventino). Poi si diffuse una epidemia di febbri tifoidee che mietevano migliaia di vittime che rallentò l’elezione, permanendo una crisi in tutta l’amministrazione politica della città che vide incendi, demolizioni, ruberie financo verso i pellegrini, notoriamente ben accolti dai cittadini. Per questo si pensò di riunirsi in un’altra città. Inizialmente Rieti poi, nell’ottobre del 1293, i cardinali decisero di recarsi a Perugia perché, nel 1264, vi era stato felicemente eletto Clemente IV. Ma il collegio era comunque diviso tra le due forti correnti, quella degli Orsini e quella dei Colonna.
Carlo II d’Angiò, Re di Napoli e Giacomo II, Re di Aragona avevano bisogno della presenza del papa per definire la questione siciliana dopo i fatti dei Vespri; per questo il re di Napoli e Carlo Martello, suo figlio, si recarono a Perugia per sollecitare l’elezione. Entrarono nel Conclave e furono messi alla porta dal card. Benedetto Caetani. Ma si capì che la situazione poteva degenerare da un momento all’altro. Era ancora vivo il ricordo di quando, a Viterbo, distrussero il tetto del palazzo ove si teneva il Conclave più lungo della storia. Per tutti questi motivi i cardinali capirono che dovevano fare in fretta, non scontentare una delle due potenti famiglie romane, scegliere un luogo diverso da Roma, trovare un papa di transizione. Qui non c’è tempo per ricordare tutti gli undici componenti di quel Conclave (dopo la morte del card. Cholet, gran mediatore), ma basti sapere che erano tutti grandi studiosi, giuristi, appartenenti a potenti famiglie che pensavano solo alla politica e agli affari piuttosto che alla vita spirituale. Crisi politica, malaffari, contrasti insanabili dividevano non solo i cardinali ma tutto il mondo politico di quel tempo. Ecco il motivo per cui, forse al card. Malabranca, decano del collegio, venne in mente l’idea di eleggere non uno di loro, bensì un uomo spirituale, non solo per transizione, ma anche per dare più lustro a tutta la Chiesa che attraversava un momento assai delicato. Non solo un uomo di Fede ma possibilmente un uomo di Chiesa nel senso di una personalità ben inserita nella gerarchia ecclesiastica.
E un nome si cominciava a delineare: il monaco Pietro Angelerio. Egli viveva sul monte Morrone ma in suo nome erano già nati numerosi eremi, gruppi religiosi, chiese, congregazione. Si narravano prodigi, miracoli, folle che lo acclamavano. Tutto questo quietava i cardinali che, pur di non veder il rivale prevalere, avrebbero votato una persona del tutto innocua sul piano politico.
Sappiamo che il re di Napoli e suo figlio, nel luglio del 1293, si incontrarono a Sulmona con il monaco eremita.
E’ chiaro che tutti andarono cauti prima della decisione. Volevano capire bene chi fosse e che pericoli avrebbero potuto avere da un personaggio che era famoso e acclamato come un santo in terra.
Poi un evento che, nel Medioevo, era pregno di presagi. Il giovane fratello del card. Napoleone Orsini morì di febbre pestilenziale. L’infausto evento venne interpretato come una vendetta divina contro Roma, o meglio, contro lo stallo politico in cui versava la città per colpa dei cardinali.
Questo il clima in cui, il 5 luglio del 1294, venne proclamato Papa, Fra’ Pietro Angelerio dopo 27 mesi di Conclave. A 79 anni veniva eletto papa un monaco che, in quel momento, si trovava romito in qualche grotta.
L’11 successivo si formò una delegazione di cinque persone che dovevano recarsi dall’eremita. Questa fu composta dall’arcivescovo di Lione, Berardo de Goud, da Pandolfo vescovo di Patti, da Francesco Monaldeschi vescovo di Orvieto e da cdue notai della sede apostolica, uno dei quali della famiglia Orsini. Come si può vedere, nessun cardinale doveva essere presente. Questo per non mettere in difficoltà il nuovo papa che non aveva incarichi particolari nella curia e, quindi, farlo sentire più libero. Ma essendo presente uno della famiglia Orsini, il card. Pietro Colonna si unì alla delegazione in marcia verso Sulmona e di lì all’eremo di Sant’Onofrio.
È sicuro che alcune persone, subito dopo l’elezione, si precipitarono all’eremo per dare la notizia a Pietro Angelerio. Quando poi giunse la delegazione per ufficializzare la notizia, tutti si prostrarono per terra: l’eremita per devozione verso quelle illustri persone, queste per essere benedette dal nuovo Pontefice.
Petrarca scriverà che accettò “tractus et coactus”. Alcuni storici hanno scritto che l’elezione fu una macchinazione di re Carlo con la complicità di Malabranca, complice lo stesso povero frate; ogni documento, ogni fatto dimostrano l’esatto contrario. Alla notizia il povero eremita voleva scappare e solo tra i pianti e la costernazione accettò, più per ubbidire al collegio cardinalizio che alla volontà di assumere quel gravoso incarico.
Siamo alla fine del Medio Evo ed è chiara l’enorme differenza tra la Ecclesia carnalis, mirabilmente incarnata dal Caetani, futuro Bonifacio VIII, e l’Ecclesia spiritualis, rappresentata dalle migliori figure della Chiesa, da Francesco d’Assisi, Jacopo da Todi, Gioacchino da Fiore, e da tanti altri e, tra poco, da Celestino V.
Se non si capisce e non si comprende il clima di odio, di guerra, di dispetti che segnavano la Chiesa di quel momento, le difficoltà sul piano politico che attraversavano i vari regnanti, e che portarono all’elezione di un eremita che preferiva le grotte alle agiatezze del palazzo apostolico, non si potrà apprezzare e comprendere poi il suo gesto, il suo rifiuto, la sua rivoluzionaria scelta. Ci sono studiosi, anche molto seri, che hanno definito fra’ Pietro come un minus habens, come persona ignorante, incapace di relazionarsi con i complessi meccanismi della politica romana e imperiale. Il giudizio è del tutto severo e in gran parte del tutto fuorviante! Nella sua posizione era molto più facile diventare docile alleato dei potenti del momento e godersi l’agiatezza che gli consentiva il pontificato. Difficile invece doveva apparire la scelta di rammaricare tutti i potenti d’Europa che avevano contato sulla sua elezione con le dimissioni e la gran pare dei cardinali, preoccupati per le conseguenze di quel gesto.
Mentre Roma era dilaniata da soprusi, tasse, nefandezze delle più altisonanti famiglie patrizie, con i fedeli disorientati da tanto malaffare, la nomina del monaco anacoreta, che dormiva nelle gelide montagne abruzzesi, divenne l’unica ancora di salvezza, di redenzione, di speranza per tutto il mondo cattolico. E in un certo senso, nutrivano speranza anche quei cardinali che avevano portato la Chiesa sull’orlo del baratro.
Quest’ultima riflessione andrebbe tenuta bene in mente per quello che successe poi in seguito.
Celestino V provò a riformare il collegio cardinalizio incapace di prendere decisioni, di governare con spiritualità e fortemente diviso dalle angherie ora dell’uno, ora dell’altro cardinale. Egli, dall’alto della sua pia fede, capì che bisognava allargare il numero dei cardinali che, al momento, era di dieci, dopo la morte del decano Malabranca. Dieci tutti divisi e in odio tra di loro avevano trasformato il Soglio di Pietro in un affare privato, di puro interesse economico, privo di qualsiasi valenza spirituale.
Il 18 settembre 1294 Celestino V indisse il Concistoro con il quale aumentò il numero dei cardinali e decise di spostare la sede papale, la quale, non necessariamente doveva essere a Roma. Provò a uscire e liberarsi dai tentacoli che lo volevano docile agnellino per avallare decisioni prese in qualche palazzo romano o del re Carlo. Egli voleva andare a Roma, come primo atto da Papa, ma re Carlo II lo convinse a rimanere lì, anche per la forte calura che regnava a Roma; così anche molti cardinali preferivano che rimanesse lontano dalla città. Inizialmente decise di andare a L’Aquila e qui ordinò l’ampliamento dell’Abbazia di Collemaggio, edificata per suo volere molti anni prima. Vi entrò in sella ad un asino e con dietro tutto il codazzo pontificio.
La folla andò in delirio nel vedere il Papa così umile sopra un asino, come Cristo a Gerusalemme. L’incoronazione avvenne quindi a L’Aquila in Santa Maria di Collemaggio il 29 agosto, giorno di San Giovanni Decollato, a cui era molto devoto.
Prese il nome di Celestino V, forse per chiamare a sé le forze celesti o per riconoscenza a Celestino IV morto dopo soli diciassette giorni di pontificato. La folla si radunava ogni giorno intorno a lui e questa popolarità, schietta e sincera, non era usuale verso un papa. Celestino V emanò la Bolla Inter sanctorum solemnia con la quale indisse la c.d. Perdonanza Celestiniana. Egli decise l’indulgenza plenaria a chi si fosse confessato e comunicato dentro Santa Maria di Collemaggio il giorno 29 agosto di ogni anno e tale decisione resta valida a tutt’oggi. E si può giustamente dire che si trattò del primo, sia pur limitato, Giubileo nella storia della Chiesa.
Bonifacio VIII, revocò questa bolla falsificando i documenti ma questa è un’altra storia. Fu invece un atto ripreso da altri papi, come Onorio III e il c.d. perdono d’Assisi.
Il soggiorno a L’Aquila fu felice e sereno per il Papa molisano. Forse l’unico. Bonifacio VIII rinvenne pergamene firmate in bianco da Celestino V; questo vuol dire che egli non solo si fidava ma non sapeva il rischio che correva nell’affidarsi a mani del tutto prive di scrupoli. Carlo II non mollò mai il papa; lo circondò di uomini fidati e consigliò spesso le sue scelte. Volle che venisse revocata la bolla Fundamenta Ecclesiae di Niccolò III, con la quale si vietava la nomina di stranieri nel Senato romano. Solo la sua abdicazione evitò che venisse revocata.
Celestino intanto nominò ben tredici Cardinali e nessuno proveniva dalle famiglie romane. Sei furono italiani, sette francesi, modificandosi così il peso all’interno dei successivi Conclavi. Avviò poi una lunga serie di provvedimenti in politica estera, tra cui la restituzione della Sicilia a Carlo II.
Il soggiorno a L’Aquila fu pieno di eventi felici.
Poi tutto cambiò con il trasferimento a Napoli, vicino alle ammalianti grinfie di Carlo II che da tempo stava preparando il trasferimento con ogni cura. Il viaggio verso Sud fu memorabile e lungo. Folle di fedeli, giubilo, inginocchiati da ogni parte lo attendevano. Anche quando volle passare prima all’eremo di Sant’Onofrio, i difficili e stretti sentieri erano colmi di fedeli venuti da ogni parte. Si narra che lungo tutto il tragitto si manifestarono diversi miracoli con orazioni o con impositio manuum. Una delle guarite si chiamava Angiola di Giovanni di Pietro di Caramanico. Giunto a Montecassino prese una decisione assai ardita e foriera di aspre critiche. Unì la più grande congregazione di San Benedetto alla sua dei Celestini; unione che causò problemi non facili da risolvere e della quale, onestamente, non se ne poteva capire l’utilità o il motivo. Poi, motu proprio, nominò cardinale Giovanni da Castrocielo, discutibile personaggio, vescovo di Benevento. Lo nominò al di fuori di ogni consuetudine e diritto e senza consultare gli altri cardinali. Rimane il dubbio che alcuni suoi provvedimenti provenissero dai cancellieri tutti di fiducia di Carlo II.
Di quel periodo rimane un’importante particolare per i teologi: i numerosi miracoli attribuitigli confermerebbero la volontà divina della sua elezione a papa e, quindi, il suo breve pontificato, acquisterebbe un significato tutto particolare.
Giunto a Napoli venne accolto da una folla immensa, sempre seguito, e controllato, da Carlo II. Si sistemò a Castel Nuovo, vicino il porto. Si narra di una visita di Dante Alighieri a Celestino in qualità di ambasciatore di Firenze ma il poeta, in quel periodo, non ricopriva incarichi di tal genere. È più verosimile che si fossero incontrati durante il soggiorno a L’Aquila. In trenta giorni vennero emanati 70 provvedimenti tra i quali spicca quello di annessione alla sede apostolica del monastero di San Pietro ad Aram che era caduto sotto il dominio di alcune famiglie nobiliari napoletane; inoltre richiamò alla Regola Celestiniana tutti i monaci presenti.
Alla frenetica e chiassosa vita napoletana il papa preferiva il ritiro nei sotterranei del palazzo. Si fece adibire a stanza una celletta e veniva seguito da un cameriere, tale Riccardo da Bellegra. Questa scelta ci deve indurre a credere che, a Fumone, non rimase prigioniero in una torre, ma fu una sua scelta in linea con la sua aspirazione di eremita; naturalmente, il suo isolamento totale, fu invece una scelta del Bonifacio.
Ai primi di dicembre cominciarono a circolare strane voci. Il papa cercava o voleva delegare alcuni suoi compiti ai cardinali, fatto del tutto inaudito, non previsto, non ammissibile sul piano giuridico ma soprattutto su quello teologico. Su questo evento si crede giustamente che ci fosse lo zampino di Carlo II il quale, approfittando del carattere chiuso e riservato di Celestino, cercava di mettere in pratica il suo piano: rendere il papa innocuo e far muovere la macchina burocratica a suo comando.
Narra lo Stefaneschi che la folla irruppe nel palazzo, scovò nei sotterranei il papa e strapparono la lettera di dimissioni intonando il Te Deum.
In verità la renuntiatio papae era stata ben studiata da teologi e giuristi da molto tempo prima di Celestino V.
Nel 1190, Uguccione aveva valutato che per gravi motivi, davanti i cardinali, il papa si poteva dimettere. Secondo altri si poteva dimettere anche da solo, senza alcuna interferenza, in quanto, per tale atto, avrebbe risposto solo davanti a Dio. Così recita sostanzialmente l’art. 1, capitolo I, sezione I, parte II, libro II del Codice di diritto Canonico (“Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”).
Celestino V si consigliò con Benedetto Caetani, Gerardo Bianchi, Jean Lemoine. Naturalmente il Caetani lo rassicurò sulla legittimità di tale gesto e ciò gli valse la critica di aver agito per scopi prettamente personali. Informati i cardinali questi furono tutti contrari e preoccupati per le conseguenze su tutta la Chiesa.
Solo il Caetani lo rassicurava.
Il 13 dicembre lesse l’abdicazione, si tolse tutti i simboli come l’anello, il manto, la corona e si sedette per terra per dare peso maggiore al suo gesto non più revocabile. L’atto di abdicazione andò perduto ma riapparve, guarda caso, in una bolla di Bonifacio. Celestino V tornò ad essere Pietro del Morrone. IL suo pontificato era durato cinque mesi e nove giorni.
Il 24 dicembre i diciassette cardinali presenti elessero, in modo del tutto impreciso e senza documenti ufficiali, Benedetto Caetani che assunse il nome di Bonifacio VIII. Egli contravvenendo alle promesse volle mettere sotto la sua “protezione” Pietro per paura di sommosse popolari o di un suo ripensamento o, peggio, di uno scisma. Per la verità il Caetani e Angelerio avevano deciso di vedersi a Roma per trovare una sistemazione; infatti, lo fece partire accompagnato solo dall’abate Angelerio II di Montecassino, nominato proprio da Celestino.
Come scritto in un precedente post, Bonifacio non aveva intenzione di imprigionare il suo predecessore ma fu proprio il monaco a complicargli le scelte. Da una parte i cardinali che lo spingevano a questa scelta, dall’altra le numerose fughe dell’ex pontefice, il quale, dove si trovasse, veniva accolto da folle in giubilo che lo acclamavano e chiedevano grazie e favori. Non riusciva a trovare un luogo in cui potesse rimanere solo senza essere riconosciuto.
L’impressione sembrava fosse quella di un suo ripensamento (evento del tutto estraneo alla volontà di Pietro) o, peggio, a qualche re che avrebbe potuto approfittare dell’incertezza per creare uno scisma.
Dopo le rocambolesche fughe, alla fine, Pietro venne reso innocuo bloccandone ogni intenzione di scappare con il papa che decise di mandarlo “ospite” presso il suo castello a Fumone, vicino Ferentino (FR). L’idea si rafforzò dopo un evento del tutto eccezionale ed imprevisto. L’arcivescovo di Cosenza, Ruggero, passava le acque alla fonte Anticolana, di proprietà Caetani, per calcolosi, ma senza ottenere alcun miglioramento. Quando fra’ Pietro toccò il suo fegato e si mise a pregare, all’improvviso, guarì. Questo fatto rafforzò il proposito che doveva essere rinchiuso e isolato dai fedeli e così avvenne.
Passò il resto della sua esistenza, dall’agosto 1295, a maggio 1296, in una cella del torrione del castello.
Le sue spoglie sono nella sua L’Aquila a Santa Maria di Collemaggio.
Purtroppo, la figura di Celestino V venne fortemente offuscata ed infangata non tanto per il suo rifiuto al suo Ufficio, visto che prima di lui altri papi furono costretti a ricorrere al medesimo gesto, quanto per aver gettato i cardinali nella stessa crisi che precedette la sua elezione.
Il suo gesto, inoltre, deluse e gettò nello sconforto tutti coloro che nutrirono più alti sentimenti verso colui che avrebbe potuto rinnovare spiritualmente la Chiesa. Non fu perdonato. Così Dante Alighieri giudicò aspramente la sua scelta ma, forse, Dante raccolse le critiche degli ambienti di corte che, da quel gesto, ebbero solo seccature. Pochi vollero vedere cosa c’era dietro quel gesto.
Concludo con un accenno al famoso passo della Commediadi Dante: “vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”.
È probabile che si riferisse proprio a Celestino V, ma giova ricordare alcuni grandi nomi della cultura italiana che hanno tentato di spiegare un’altra storia.
Francesco Petrarca, ricordava come Diocleziano si dimise senza che il suo gesto venne considerato “vile”. Così, come altri papi prima di lui.
Boccaccio, Benvenuto da Imola, e altri credevano che si riferisse alla figura biblica di Esaù.
Anche Giovanni Pascoli, il quale, giustamente ricordava il vile rifiuto di Ponzio Pilato.
Natalino Sapegno, grande critico della letteratura, argutamente ha sostenuto che forse, Dante, non avrebbe pensato ad un personaggio in particolare ma, in quel famoso passo della Commedia, intendeva riferirsi solo ad un uomo simbolo di scelte vigliacche e ignave in generale.
Bibliografia e sitografia:
Ludovico Gatto, Celestino V Pontefice e Santo, Roma, 2007
Berardo Pio, La propaganda politica nel contenzioso tra Bonifacio VIII e i Colonna, in La propaganda politica nel basso Medioevo. Atti del XXXVIII Convegno storico internazionale (Todi, 14-17 ottobre 2001), Spoleto, 2002
Iacopo Stefaneschi, La consacrazione e l’incoronazione di papa Bonifacio VIII (a cura di Fulvio Delle Donne), Potenza, 2021 (Pdf);
Wikipedia, voci Celestino V, Cattività avignonese
https://it.wikipedia.org/wiki/Inter_sanctorum_solemnia