1. Gli uomini e la peste: a) alcune reazioni.
La Peste Nera, nelle parole di Giovanni Boccaccio (1313-1375), è una malattia nei cui confronti «né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto». C’è chi a essa reagisce partecipando a processioni o pregando, sgranando il rosario e invocando la Vergine e i Santi di intercedere presso Dio, affinché liberi gli uomini dal castigo che ha voluto inviare per punirli dei loro peccati. Alcuni attendono la morte rassegnati, con lo sguardo «fisso nel vuoto», convinti che nessuno resterà vivo – «che nissuno ne rimanesse» scrive Agnolo di Tura – e che dunque sia arrivata «la fine del mondo». Altri provano a isolarsi nelle loro case, in gruppi ristretti, per «schifare e fuggire gl’infermi e le lor cose». Conducendo vita morigerata, ossia astenendosi dai rapporti sessuali ed evitando gli eccessi nel cibo e nelle bevande, pensano di sfuggire al contagio: «così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare» riporta Boccaccio. A costoro si contrappongono individui descritti nel Decameron come «altri» che «in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’altrui case facendo». Giovanni Villani (†1348) e suo fratello Matteo (†1363) aggiungono: «trovandosi pochi, e abbondanti per l’eredità e successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate come se state non fossero, si diedero alla più sconcia e disonesta vita che prima non avieno usata, però che vacando in ozio usavano dissolutamente il peccato della gola, i conviti, le taverne e dilizie con dilicate vivande, e giuochi, scorrendo alla lussuria senza freno, trovando ne’ vestimenti strane e disusate fogge e disoneste maniere, mutando nuove forme a tutti li arredi». Pure altro cronista rimasto anonimo scrive come ci fossero persone che si abbandonavano «ai vizi peggiori». Per completezza, da ricordare anche le persone descritte nel Decameron come coloro che si muovono per le strade portando fra le mani fiori, «erbe odorifere», o «diverse maniere di spezierìe», sovente annusati, «estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare», anche perché «l’aere tutto» è reso «compresso e puzzolente» dal cattivo odore «de’ morti corpi, e delle infermità e delle medicine».
2. Segue: b) la lacerazione dei legami sociali e familiari.
La peste, e quindi la paura per una morte in costante agguato, incide profondamente sulle fondamenta etiche e morali degli uomini del tempo, indebolendo e di frequente addirittura distruggendo i vincoli primari su cui la società si basa. In concreto, non c’è posto per la solidarietà o l’altruismo, e poco o nessun valore hanno i legami familiari: moltissimi individui pensano soltanto a loro stessi e a come sopravvivere. Giovanni Boccaccio racconta come chi fugge dai centri urbani non si preoccupi del conseguente abbandono dei parenti, oltre che dei beni: «non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i loro parenti e le loro cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado». Prosegue l’Autore del Decameron: «e lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era […] questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano». Agnolo di Tura conferma le espressioni del Boccaccio: «ognuno era inpaurito che l’uno non volea aiutare l’altro, el padre abandonava el figliuolo, el figliuolo abandonava el padre e la madre e’ fratelli, e la moglie el marito». Matteo Villani, dal canto suo, tramanda che «le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti», mentre Giovanni da Bazzano (†1364), autore di una Cronaca modenese, rileva che «i cristiani si evitavano a vicenda, come la lepre rifugge il leone, o l’uomo sano il lebbroso». Altrettanto drammatico il resoconto del fiorentino Marchionne di Coppo Stefani, al secolo Baldassarre Bonaiuti (1336-1385): «moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e molti ne morirono di fame, imperocchè come uno si ponea in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli diceano: “Io vo per lo medico” e serravano pianamente l’uscio da via, e non vi tornavano più. Costui abbandonato dalle persone e poi da cibo, ed accompagnato dalla febbre si venia meno. Molti erano, che sollicitavano li loro che non li abbandonassero, quando venia alla sera; e’ diceano all’ammalato: “Acciocchè la notte tu non abbi per ogni cosa a destare chi ti serve, e dura fatica lo dì e la notte, totti tu stesso de’ confetti e del vino o acqua, eccola qui in sullo soglio della lettiera sopra ’l capo tuo, e po’ torre della roba”. E quando s’addormentava l’ammalato, se n’andava via, e non tornava. Se per sua ventura si trovava la notte confortato di questo cibo la mattina vivo e forte da farsi a finestra, stava mezz’ora innanzichè persona vi valicasse, se non era la via molto maestra, e quando pure alcun passava, ed egli avesse un poco di voce che gli fosse udito, chiamando, quando gli era risposto, non era soccorso. Imperocchè niuno, o pochi voleano intrare in casa, dove alcuno fosse malato».
3. I flagellanti.
Uno dei fenomeni più drammatici associati alla Peste Nera è quello dei flagellanti, confraternite, o meglio sette religiose. Durante i loro pellegrinaggi, gli adepti si sottomettevano a privazioni, chiedevano perdono per i peccati, predicavano il pentimento, ma soprattutto mortificavano le loro carni con flagelli chiodati. Questi ultimi sono così descritti da un cronista del tempo: «ogni flagello era una specie di bastone dal quale sul davanti pendevano tre corde con grossi nodi. Questi nodi erano attraversati da spine di ferro incrociate, molto appuntite, che li passavano da parte a parte sporgendo dal nodo stesso per la lunghezza di un chicco di grano o anche più. Con questi flagelli si battevano il busto nudo, così che questo si gonfiava assumendo una colorazione bluastra deformandosi, mentre il sangue scorreva verso il basso imbrattando le pareti della chiesa all’interno della quale si flagellavano. A volte si conficcavano le spine di ferro così in profondità nella carne che riuscivano a toglierle soltanto dopo ripetuti tentativi».
Un po’ di storia. – Il movimento, in realtà, era nato nel Duecento, nel corso del quale aveva fatto proseliti soprattutto nell’Italia centrosettentrionale, in Provenza, in Austria e in Germania. Nondimeno, si era presto sciolto per l’intervento sia dei governi sia della Chiesa. I primi avevano intravisto un certo pericolo nelle predicazioni dei penitenti per l’abbandono delle contese di partito e per la pacificazione nelle città. La seconda, invece, aveva temuto che nelle camarille potessero infiltrarsi esponenti di antiche eresie e non aveva certo gradito le critiche rivolte, durante le predicazioni, all’opulenza del clero. Così, prima della pandemia, l’unica processione di flagellanti è quella guidata a Roma, nel 1333 (o forse nel 1335), da Venturino da Bergamo (†1346), per altro abile a contenerla entro lo schema penitenziale.
Durante la Peste Nera. – Proprio la pandemia, però, riporta in auge le bande, complici il clima che il morbo ha creato e alcune dichiarazioni mendaci di cui gli stessi flagellanti si rendono latori. A Strasburgo, essi sostengono che un Angelo ha portato a Gerusalemme un’epistola in cui Gesù Cristo manifesta la Sua riprovazione per i comportamenti degli esseri umani. L’ordine è di cambiare atteggiamento, anche perché si tratta dell’ultimo avviso prima del Giudizio Universale. Sulla scorta di tale menzogna, gli abitanti della città sono invitati alla penitenza, che per la setta si traduce in cerimonia pubblica durante la quale le persone devono confessare i loro peccati con una mimica corporea ben codificata. Ad esempio, gli adulteri devono stendersi su un fianco e gli omicidi rotolarsi sulla schiena. Si potrebbe pensare che la break dance sia nata proprio allora, grazie ai responsabili di più colpe…
I riti e il proselitismo. – Di là delle facili battute, i flagellanti intonano cantici, iniziati dai loro capi e ripresi in coro dagli altri. Inoltre, come poc’anzi accennato, si prostrano, urlando suppliche al Cielo, e si martoriano con una frusta alla quale sono annodate spine metalliche, che si conficcano nelle carni. Loro opinione, fin dal secolo precedente, è che il cruento rito, operato direttamente, ossia senza ordine ricevuto dal sacerdote, possieda da solo la virtù di dare la salvezza. Nei vari luoghi in cui si recano, le lunghe file sono di solito guidate da esponenti del basso clero che portano croci e insegne sacre. Sulle prime, sono ben visti, anche perché, a onor del vero, molti elementi delle confraternite si offrono per assistere i malati e seppellire morti quando ormai nessuno, o quasi, è disposto ad assumersi un tale incarico. Pertanto, le varie bande, che hanno iniziato le loro processioni in Germania settentrionale, riescono a diffondersi con una certa rapidità, raccogliendo alcune migliaia di adepti in quasi tutta l’Europa centroccidentale, ma anche in Ungheria e in Boemia.
Declino e fine. – Tuttavia, con il trascorrere del tempo, l’evidente inconcludenza della mortificazione, gli altri eccessi religiosi del movimento, la disciplina iniziale che cede il passo a un’anarchia fatta di saccheggi indiscriminati, conducono a una crescente ostilità nei confronti delle processioni, che trovano via via più spesso le porte delle città chiuse di fronte a loro. Un reporter medievale, rimasto anonimo, scrive che «cominciarono a dimenticare il servizio e gli uffizi della Santa Chiesa, e restavano nelle loro follia e presunzione che i loro uffizzi e i loro canti fossero più belli e più degni di quelli dei preti e dei chierici, e così si sospettava che […] questa gente avrebbe finito per distruggere la Santa Chiesa e uccidere preti, canonici e chierici, desiderando avere i loro beni e i loro benefici». Lo stesso pontefice, Clemente VI, al secolo Pierre Roger (†1352), con la bolla Inter sollicitudines del 29 ottobre 1349, condanna le esagerazioni dei flagellanti, appellandosi nello stesso tempo ai governanti, i quali, in diversi casi, li mettono al bando, minacciando addirittura la condanna a morte. In conseguenza, così come nel XIII secolo, il movimento si estingue rapidamente.
4. Le reazioni umane in pestilenze successive alla Morte Nera.
Nelle epidemie occorse dopo la Peste Nera, le reazioni umane non sarebbero state diverse. In proposito, a titolo esemplificativo, si vuole richiamare un’Epistola, scritta in occasione della pestilenza che investe Firenze, ma anche altre città, nel XVI secolo, e alla quale è legata una storia particolare. Fino ai primi del Novecento, la paternità di quell’Epistola è attribuita a Lorenzo di Filippo Strozzi (1482-1549), scrittore e politico italiano, amico – soltanto presunto, come si noterà fra poco – di Niccolò Machiavelli (1469-1527). In realtà, è proprio quest’ultimo l’autore della lettera: come dimostrato da un esame ad ampio respiro di carattere storico, filologico e critico, il padre del Principe, nel 1523, la scrive e spedisce allo Strozzi, che, per inciso, è lontano da Firenze. Questi, nel 1527, dopo la morte di Machiavelli, ne altera la firma. In ogni modo, l’Epistola in parola è una splendida pagina di letteratura, che aiuta a comprendere quale fosse, nel Cinquecento toscano, il rapporto dell’uomo con la malattia, ma anche il tragico e desolante quadro di una città stretta nella morsa della peste. In conseguenza, appare opportuno riportarne il contenuto: «la nostra pietosa Firenze ora non sembra altro che una città presa d’assalto dagli infedeli e poi abbandonata. Una parte degli abitanti […] si è ritirata in lontane case di campagna, una parte è morta e un’altra parte sta morendo. Quindi il presente è tormento, il futuro minaccia, così lottiamo con la morte e viviamo soltanto nella paura e nel tremore. Le strade pulite e belle che un tempo pullulavano di cittadini ricchi e nobili ora sono puzzolenti e sporche; folle di mendicanti si trascinano attraverso di esse con gemiti ansiosi e solo con difficoltà e paura si può superarli. I negozi e le osterie sono chiusi, nelle fabbriche il lavoro è cessato, i tribunali sono vuoti, le leggi sono calpestate. Ora si sente di qualche furto, ora di qualche omicidio. Le piazze e i mercati in cui i cittadini erano soliti radunarsi, adesso sono stati convertiti in tombe e in luogo di villeggiatura della malvagia marmaglia […]. Se per caso si incontrano […] un fratello, una sorella, un marito, una moglie, si evitano accuratamente […]. I padri e le madri evitano i propri figli e li abbandonano […]. Sono ancora aperti alcuni negozi di provviste, dove si distribuisce il pane […]. Invece di conversazione […] ora si sentono solo notizie pietose e lugubri: tale è morto, tale è malato, tale è fuggito, tale è internato in casa sua, tale è in ospedale, tale uno ha delle infermiere, un altro è senza aiuti […]».