La peste del XIV secolo – Capitolo VIII

1. Il luogo di origine della Morte Nera: a) l’ipotesi più plausibile.

Corre l’anno 1338 e nei pressi del lago Issyk-Kul, sulla catena montuosa Tien Shan… No, non si tratta dell’incipit di un romanzo, ma del probabile inizio del peggior incubo della storia umana. La Peste Nera.

Premessa. – I ceppi batterici o virali di tutte le malattie epidemiche, o a maggior ragione pandemiche, provengono da un unico ceppo madre. In altre parole, i microrganismi responsabili di una patologia ad ampia diffusione hanno tutti un unico antenato comune. In termini semplicistici, inoltre, un virus o un batterio possiedono una specie di albero genealogico, la cui rappresentazione grafica si definisce filogenesi. Invece, il nodo da cui si diramano più bracci è noto come politomia.

Recenti scoperte. – Nel 2020, una squadra guidata da Mark Achtman, docente di genetica delle popolazioni batteriche presso l’Università di Warwick, Gran Bretagna, attraverso la ricostruzione filogenetica della Yersinia pestis, ha dimostrato inequivocabilmente come la pandemia del Trecento sia dipesa proprio da una politomia avvenuta fra il 1316 e il 1340. In quell’epoca, sono nati quattro rami che sopravvivono ancora ai giorni nostri in oltre quaranta specie di roditori. Uno di quei rami ha dato origine alla Morte Nera, dalla quale, per altro, sono in seguito discese molte altre epidemie. In termini più tecnici, negli anni accennati è occorso un massiccio evento di diversificazione dei ceppi, un autentico Big Bang microbico. Una scoperta notevole che, però, non rivelava dove l’evento stesso si fosse verificato, e quindi non regalava alcuna risposta precisa al problema che da tantissimo tempo appassiona gli storici: il luogo in cui si è originata la Peste Nera. Tutti erano (e sono) d’accordo soltanto su un punto: l’Asia. Già… peccato che non si tratti di un paesello, ma di una regione geografica vasta quasi 45milioni di chilometri quadrati. Tuttavia, fra questi studiosi ce n’era uno particolarmente attratto da prove già esistenti: Philip Slavin, docente di storia medievale presso l’ateneo di Stirling, nel Regno Unito. Questi sapeva che, fra il 1338 e il 1339, un numero di persone sproporzionatamente alto era deceduto nei villaggi situati nei pressi del lago Issyk-Kul, sui monti Tien Shan, nell’odierno Kirghizistan. Il dato cronologico risultava dalle iscrizioni tombali presenti nei due antichi cimiteri di Kara-Djigach e Burana, dai quali, già nel XIX secolo, erano stati esumati dei cadaveri, attualmente conservati presso il Museo di Antropologia e di Etnografia di San Pietroburgo.. Fra l’altro, una di quelle iscrizioni riportava addirittura la causa di morte: pestilenza. Indubbiamente, una parola che nel XIV secolo comprendeva diverse patologie, ma pur sempre allettante. In conformità a questi elementi, un team di esperti provenienti da varie Università ha chiesto e ottenuto la possibilità di analizzare il DNA presente nella polpa dentaria di alcune delle salme poc’anzi accennate. La causa di morte è stata immediatamente chiara: peste. La successiva ricostruzione dei genomi antichi del batterio ha dimostrato che i medesimi sono riconducibili a un unico ceppo, posizionato esattamente nel nodo del Big Bang di diversificazione, in precedenza richiamato. In parole più semplici, sembra proprio che la Morte Nera abbia avuto origine nell’attuale Kirghizistan. Del resto, non ci sono dubbi che i ceppi contemporanei correlati a quello del Trecento siano localizzati nei serbatoi di peste intorno alle montagne del Tien Shan, ossia nei roditori che vivono in quei luoghi. Pertanto, vicinissimi ai villaggi in cui il morbo, nel 1338, ha fatto le sue prime vittime.

2. Segue: b) l’ipotesi delta del Volga.

Gli studi degli esperti che hanno esaminato i resti degli uomini uccisi dalla peste nel 1338 sono stati pubblicati su importante rivista scientifica, e naturalmente riportati dai media di quasi tutto il mondo. Nondimeno, alcuni storici non concordano con le relative conclusioni. Uno degli scettici è l’accademico norvegese Ole Jørgen Benedictow (n. 1941), il quale, nel 2004, aveva sostenuto: «ci sono prove storiche sostanziali che la Peste Nera sia scoppiata originariamente nella parte inferiore del Volga, molto probabilmente nel delta, dove c’è un serbatoio attivo di peste, ampiamente documentato da un gran numero di dati storici, e che ancora oggi causa casi di peste». Lo storico ritiene che una o più persone residenti, nel XIV secolo, nei dintorni dell’Issyk-Kul siano state contagiate da un roditore selvatico infetto. In conseguenza, la pestilenza del 1338/1339 sarebbe stata un incidente rimasto limitato a quell’area, anche perché, sempre secondo l’esperto, è molto difficile che possano esserci stati contatti fra le genti che vivevano a Nord del Caspio – ossia nel delta del Volga – e quelle che abitavano nella zona in cui si trova quel lago. Su quest’ultimo assunto, si consenta di dissentire. L’Issyk Kul era una tappa abbastanza comune per i carovanieri che viaggiavano sulla Via della Seta, sia per la sua vicinanza a città quali Kokand, Tashkent, ma soprattutto Samarcanda e Bukhara, sia perché i cammelli si dissetavano volentieri nelle acque del lago medesimo (sebbene le stesse siano salate). E non v’è ragione per cui i mercanti non avrebbero dovuto spostarsi verso Ovest: anzi, soprattutto verso Ovest, atteso che il Khanato più orientale, a far epoca dal 1325 circa, era maggiormente isolato rispetto agli altri sotto gli aspetti culturale e religioso. Si aggiunga che l’impero mongolo, fino alla sua definitiva dissoluzione, occorsa nel 1368, ha continuamente trasferito nel vecchio continente il proprio sapere, relativo, ad esempio, alla medicina, all’astronomia, alla geografia e all’agricoltura. E ancora, nessun dubbio che le città in precedenza richiamate – soprattutto Samarcanda – siano state flagellate dalla peste e che, già dal Duecento, fosse stato istituito l’Örtöö, traducibile come casa di posta: un sistema di comunicazione che collegava l’Estremo Oriente con l’Occidente. Le staffette percorrevano ogni giorno 40/50 chilometri a dorso dei loro destrieri, e in ciascuna stazione i cavalli stessi erano sostituiti da altri freschi oppure foraggiati. Per inciso, non è escluso che anche tale organizzazione abbia contribuito a diffondere la Morte Nera. Di là di tali rilievi, è certo che il ceppo di peste trovato nel delta del Volga nel 2019 è del tutto simile a quello identificato sui resti umani provenienti dall’odierno Kirghizistan. Pertanto, posto che il morbo fa le sue prime vittime a Saray Batu, capitale del Khanato dell’Orda d’Oro (quello più ad Ovest), nel 1345, e che tale città era nei pressi di quel delta, ne discende, con tutta evidenza, che la malattia che arriva in essa è molto probabilmente la stessa che interessa la zona dell’Issyk-Kul, colpita anni prima. In buona sostanza, le tesi del professor Benedictow, per quanto interessanti, appaiono poco convincenti.

3. Segue: c) l’ipotesi monti Altaj o deserto del Gobi. Le pestilenze in Cina.

Molti studiosi sostengono che la Morte Nera sia nata nelle aree a Nord dell’odierna Cina (all’epoca Khanato sotto la dinastia Yuan): sui monti Altaj o nel deserto del Gobi, ove vivevano colonie di roditori presso cui la peste era endemica da diverso tempo. Da una di queste, lo stesso morbo avrebbe raggiunto la provincia dello Héběi nel 1331, da cui i bacilli pestosi avrebbero iniziato il loro viaggio verso Occidente. Su un noto portale si legge testualmente: «è molto probabile che nel 1331 [la] peste nera che sedici anni più tardi arriverà in Europa, sia partita da qui» (ossia dallo Héběi) e sul web si trovano varie espressioni quali «la peste è attestata in Cina nel 1331» o altre di analogo tenore. In realtà, la questione non è così semplice. Senza dubbio, una patologia, fino al 1335, interessa alcune province a Sud dello Héběi, e segnatamente lo Hénán, lo Húběi e lo Húnán settentrionale, e non si può escludere che i bacilli, viaggiando da un caravanserraglio all’altro, raggiungano l’area dell’Issyk-Kul nel 1338, per poi continuare la loro marcia verso Occidente. Tuttavia, anche alla luce di quanto sarebbe poi accaduto nel vecchio continente, non si comprende la ragione per cui la peste – anche ammesso fosse tale – non si sia propagata, oltre che a Mezzogiorno, ed eventualmente a Ovest, pure nelle province a Nord e a Est del richiamato Héběi, tutte molto ben collegate, già all’epoca, da strade e canali. Fra questi ultimi, soprattutto il Gran Canale, che congiungeva (come congiunge tuttora) Běijīng con Hángzhōu, nello Zhèjiāng, dopo esser passato proprio per lo Héběi, ma anche attraverso lo Shāndōng e lo Jiāngsū. Si aggiunga che nessuna fonte dell’epoca descrive i segni e i sintomi del morbo oggetto di questo studio, mentre sono ben documentate gravi carestie e varie esondazioni. In conseguenza, appare verosimile che le accennate aree del Khanato, fra il 1331 e il 1335, siano flagellate dalla fame e dalla malaria, patologia trasmessa dalle zanzare, certamente presenti in numero enorme a causa del fenomeno poc’anzi accennato. Argomentazioni analoghe per una seconda epidemia, che, nel biennio 1345-1346, flagella lo Shāndōng e il Fújiàn, due province orientali che affacciano entrambe sul mare. Per tale motivo, alcuni esperti hanno ritenuto che i bacilli, dopo essersi imbarcati, avrebbero colpito varie città e aree sulle coste, fino al Golfo Persico. Ancora una volta, però, non è per niente chiaro il motivo per cui la peste non si sarebbe ampiamente propagata in numerose altre zone sotto la dinastia Yuan. Anche concedendo fosse tale, si sarebbe trattato di un focolaio isolato. Invece, nel 1351, una «grande pestilenza», giusta la definizione dell’epoca, giunge nel Khanato del Gran Khan, per via terrestre o marittima, e fino al 1353/1354 si propaga in gran parte di esso. Forse, anche nella penisola coreana, nel Giappone meridionale e pure nel subcontinente indopakistano, nell’attuale Sri Lanka, in Birmania e in Malaysia, per altro già investiti se il morbo è arrivato in Estremo Oriente con le navi. Di sicuro, in Cina muoiono milioni di persone, e non mancano storici secondo cui l’episodio ha contribuito al definitivo crollo della dinastia Yuan, soppiantata nel 1368 da quella Ming. In ogni caso, si trattava molto probabilmente di peste, atteso che la patologia, per così dire, si comporta come in Europa, ossia si diffonde ampiamente con grande celerità, uccide senza alcuna pietà e si ripresenta a ondate (la prima nel 1356 e la seconda nel 1360).

4. Segue: d) le ipotesi Himalaya e Tibet.

Giusta altro assunto, la Morte Nera si sarebbe originata sull’Himalaya o più probabilmente nel Tibet, e da qui avrebbe raggiunto la Birmania (odierno Myanmar), forse a seguito delle truppe mongole che avevano attraversato lo stesso altipiano, e aree più a Nord. È vero che Pagan, città nel regno di Myinsaing, appunto in Birmania, è flagellata da una patologia intorno al 1320. Tuttavia, di nuovo, è da ritenere che, qualora si sia trattato di peste, il focolaio sia rimasto limitato alla zona. Difatti, il morbo scoppiato verso il 1320 nel richiamato centro non può essere lo stesso che raggiunge lo Hénán nel 1331, e men che meno l’area dell’Issyk-Kul nel 1338. Anche di là del tempo trascorso, i bacilli avrebbero necessariamente colpito prima le province cinesi più meridionali – anzitutto lo Yúnnán o il Guǎngxī, confinanti con la Birmania – e poi le altre intermedie. Analogamente, appare impossibile che gli stessi batteri siano giunti nel Golfo del Bengala – saltando, appunto, lo Yúnnán o il Guǎngxī – o comunque siano risaliti dall’Himalaya o dal Tibet, raggiungendo, nel 1338, la zona che oggi rientra nei confini cinesi, uzbechi e kirghisi. In questo caso, infatti, sarebbero state presto coinvolte città e aree nordoccidentali del Khanato sotto la dinastia Yuan, altre del Khanato Chagatai orientale e verosimilmente altre ancora del subcontinente indopakistano. In particolare nelle prime, però, nessuna fonte riporta casi probabili di peste prima del 1351/1352. In piena obiettività, l’ipotesi in parola, anche escludendo le pestilenze del 1320 circa e del 1331/1335, sembra priva di fondamento.

5. La diffusione della Peste Nera: a) Asia (tranne Sultanato Mamelucco).

Dovunque si sia originata, la Morte Nera flagella certamente l’Asia centroccidentale. La peste, dopo essere transitata, fra l’altro, per Samarcanda, Bukhara, Merv e Teheran, è a Baghdad e Bassora nel 1347 (l’odierna capitale irachena sarà nuovamente colpita nel 1349). Nel 1348, il morbo raggiunge l’attuale Turchia centrorientale – all’incirca, fino a una linea immaginaria che collega il Mar Nero occidentale con il Golfo di Adalia – e dunque anche l’impero di Trebisonda. Nello stesso periodo, è sicuramente colpita Qatif, nella penisola araba orientale, e molto probabilmente pure Murwab (oggi Doha), Sohar e Muscat, tutte sul Golfo Persico, e Salalah, sul Mare Arabico. Negli anni successivi, la peste è nel Golfo di Aden: oltre la città omonima, sono flagellate Shihr, Sanaa (o Sana’a) e Dhamar. Fra il 1348 e il 1349, il morbo arriva in diversi centri di quello che, fino al 1335, era stato l’Ilkhanato, fra cui Shiraz e Hormuz. Non si può escludere che da uno dei porti mediorientali, siano partite le navi con a bordo i bacilli pestosi che, fermo restando quanto rilevato nella parte a questa precedente, sarebbero giunti nella Cina orientale nel 1351, altrimenti investita in area centrale per via terrestre. Per quest’ultima o per via marittima – prima, durante o dopo il medesimo 1351 – il morbo raggiunge forse il subcontinente indopakistano e il Sud-Est asiatico continentale. Quello insulare e l’odierno Sri Lanka sono eventualmente colpiti, com’è fin troppo ovvio, poiché sulle rotte solcate dalle imbarcazioni. Alcuni esperti ritengono che la Yersinia pestis sia arrivata pure nella penisola coreana e addirittura nel Giappone meridionale. Molto verosimile, in ogni caso, che la patologia abbia cagionato vittime nel Regno di Georgia, e in particolare a Tiflis (Tbilisi) e a Poti, sul Mar Nero. Certo, invece, che nel 1345 la peste – proveniente da Maraghah e Tabriz, comunque flagellate, oppure da percorsi mercantili più a Nord – mieta le sue prime vittime ad Astrakhan, sulle rive settentrionali del Mar Caspio, e a Saray Batu, capitale dell’Orda d’Oro. Entro il 1348, è coinvolto l’intero Khanato, fino al confine con gli Stati russi. Fra le città, sono colpite Bolğar (o Bolghar), Kazan’ e già nel 1346 Azov, sul mare omonimo, ove genovesi e veneziani, qualche tempo prima, erano riusciti a creare un insediamento commerciale chiamato Tana. Nello stesso anno, oppure nel successivo, il morbo serpeggia pure fra le truppe mongole che, al comando del Khan Gani Bek (†1357), assediano Caffa (odierna Feodosija, in Crimea), ricca colonia della Repubblica di Genova sul Mar Nero, con quest’ultimo che costituisce importante appendice del Mediterraneo nella struttura mercantile del periodo.

6. Segue: b) Caffa.

La malattia che, come poc’anzi accennato, uccide diversi soldati mongoli, assedianti Caffa, è descritta dal notaio e storico piacentino Gabriele de Mussi (o de Mussis), la cui presenza in Crimea è in realtà discussa. In ogni modo, così si esprime: «l’intero esercito fu afflitto da un male che colpì i Tartari e ne uccise migliaia e migliaia ogni giorno. Era come fossero frecce piovute dal cielo per colpire e schiacciare l’arroganza dei Tartari. Tutte le attenzioni e i consigli medici furono inutili; i Tartari morirono al più presto non appena i segni del male comparvero sul loro corpo: gonfiori sotto le ascelle o all’inguine causati da umori coagulanti, seguiti da una febbre putrida». Probabilmente, gli assediati stanno già ritenendo l’episodio come un segno che presto avrebbe condotto i mongoli a ritirarsi, quando accade l’imprevisto. Facendo uso dei trabucchi, gli assedianti lanciano i numerosi corpi dei morti di peste oltre la cinta muraria. In proposito, così si esprime ancora il de Mussi: «loro ordinarono che i cadaveri fossero collocati sulle catapulte e scagliati all’interno della città nella speranza che l’insopportabile fetore potesse uccidere chiunque all’interno [di Caffa]. Ciò che appariva simile a montagne di morti furono gettate all’interno della città, e i Cristiani non avrebbero potuto nascondersi né fuggire da loro, sebbene loro [i Cristiani] gettarono in mare molti cadaveri quanto poterono». L’antesignana azione di guerra batteriologica produce i suoi effetti: la peste, nel 1347, si diffonde fra i residenti. Naturalmente, esplode il panico e chi può fugge. Fra questi, uomini che, saliti a bordo di alcune galee, sperano di sottrarsi al tragico destino che ormai ha travolto la Crimea.

7. Segue: c) Impero bizantino, odierna Turchia occidentale e parte d’Europa.

Sui navigli che lasciano Caffa, nel 1347, s’imbarca anche il morbo. Nel medesimo anno, raggiunge Costantinopoli, da dove si propaga, fra l’altro, nell’odierna Turchia occidentale, all’epoca divisa fra gli Ottomani e il Selgiuchidi. In linea di massima, è coinvolta la superficie compresa fra Amasra, sul Mar Nero, Burdur, a Sud-Ovest della penisola anatolica, e Antalya, o Adalia, sul golfo omonimo. In conseguenza, il morbo flagella, oltre queste città, pure Eraclea, Nicomedia, Abydos (menzionata nell’Iliade), Smirne, Efeso, Aydin e altre ancora. Proseguendo nel suo viaggio sul mare, la peste, ancora nel 1347, raggiunge il Ducato di Atene, il Principato di Acaia e il porto di Modone, all’epoca veneziano, nel Peloponneso. Proprio dall’attuale Grecia, alcune imbarcazioni prendono la via per Rodi, Creta (anch’essa veneziana) e Regno di Cipro. Altre risalgono l’Adriatico e altre ancora proseguono verso la Sicilia. Come risultato, sempre nel 1347, sono colpite le richiamate isole del Mediterraneo orientale (e tutte le altre più piccole), Messina – prima città dell’Europa occidentale a essere raggiunta dalla peste – Ragusa, Spalato, Zara e Venezia. Nella città siciliana, tante persone iniziano ad ammalarsi e morire, e per i residenti non è certo difficile collegare i tragici eventi alle navi giunte da Oriente. Pertanto, le scacciano… ma è troppo tardi. Il morbo si propaga rapidamente nell’intera Sicilia – coinvolgendo, fra le altre, Catania. Siracusa e Palermo – e nell’odierna Calabria meridionale, mentre quelle imbarcazioni lo portano a Napoli, in Sardegna, a Pisa, a Genova e a Marsiglia. Da questi scali, raggiunti appunto nel 1347, e dai tanti altri in cui arriva negli anni successivi, la piaga si diffonde verso l’entroterra. Nel 1348, la peste interessa la penisola italiana e il Regno di Aragona, così come ampie zone del Regno di Castiglia, di quello di Francia e del Ducato d’Aquitania, ma anche il meridione del Regno inglese e l’area di Dublino, in Irlanda. L’anno successivo, il morbo completa l’opera in questi territori, investendo pure il resto della penisola iberica (Regni di Granada e del Portogallo) e iniziando a spostarsi verso Nord e verso Est. Così, il flagello colpisce il Regno di Norvegia, l’area più settentrionale dei moderni Paesi Bassi, lo Zealand (Regno di Danimarca orientale), gran parte dell’Impero Romano Germanico e del Regno d’Ungheria, e una più piccola dell’Albania, della Serbia e della Bulgaria. Nel 1350, la patologia travolge l’ampia fascia geografica che va dal Mare del Nord meridionale ai Carpazi Orientali interni, coinvolgendo dunque l’Impero Romano Germanico e il Regno d’Ungheria non colpiti nell’anno precedente. Nel medesimo 1350, la peste arriva nel Regno di Scozia, e provenendo da più direzioni, investe pure il resto del Regno di Danimarca e ampia sezione di quello di Svezia, ma anche i territori più occidentali dell’Ordine Teutonico. Quelli più orientali, e dunque anche Riga e Reval (odierna Tallinn), sono invece raggiunti dalla patologia nel 1351, durante il quale sono coinvolte pure aree appartenenti al Regno di Polonia, al Principato di Lituania e agli Stati Russi. In questi ultimi, la peste continua a penetrare anche nei due anni successivi: nel 1352, in particolare, sono colpite Kiev, Smolensk, Novgorod, Mosca e Kostroma, centro in cui il fiume che porta lo stesso nome confluisce nell’immenso Volga. Proprio il 1353, in genere, è considerato l’ultimo anno della pandemia in Europa.

8. Segue: d) altre aree europee.

Secondo alcuni esperti, la Morte Nera avrebbe causato effetti scarsi, o addirittura nulli, in una vasta sezione del Regno di Polonia, in un’altra, più piccola, del Principato di Lituania e forse anche in Slesia e Moravia. Si è voluto giustificare questa tesi richiamando la presenza dei Carpazi e delle ampie foreste, che in qualche modo avrebbero fermato, o almeno limitato, la diffusione del morbo. Si è accennato anche ad un provvedimento del sovrano polacco dell’epoca, Casimiro III, detto il Grande (1310-1370), che avrebbe vietato i viaggi nel suo Regno a persone provenienti da altri territori. E si è fatto cenno, persino, alla diversità dei gruppi sanguigni, nelle popolazioni locali, che avrebbe contribuito a ridurre la propagazione della patologia. Queste tesi non sono condivisibili, alla luce di vari rilievi. Anzitutto, vanno considerate varie, successive recrudescenze del morbo in quelle aree, una delle quali – la Great Northern War outbreak – è stata ampiamente descritta in altro capitolo del presente lavoro. Tali epidemie escludono che montagne, boschi e varietà di gruppi sanguigni possano aver contrastato la diffusione della pestilenza. Inoltre, l’ordine imposto dal monarca polacco, in precedenza accennato, sarebbe stato eseguibile soltanto nelle città, poiché circondate dalle mura. Nelle campagne, e quindi nei vari villaggi, il controllo sarebbe stato impossibile. Da ultimo, nessun dubbio che il Regno di Polonia avesse rapporti commerciali con l’Impero Romano Germanico e che, intorno al 1355, siano aumentati i salari a Cracovia e sia crollato il prezzo del grano. Due elementi che indicano importanti cambiamenti demografici, da attribuire evidentemente alla Peste Nera. Pertanto, si deve ritenere che la pandemia abbia interessato ampie zone del Regno e del Principato in parola, sia pure non conoscendo gli anni in cui i bacilli le hanno raggiunte: forse nel 1351, da Ovest, e nel medesimo o nel successivo da Nord. Insufficienti sono anche le informazioni che riguardano superfici più estese, rispetto a quelle già accennate, dell’Albania, della Serbia, della Bulgaria e degli Stati russi, oltre le intere Valacchia e Moldavia.

9. Segue: e) zone o città d’Europa risparmiate in tutto o in parte dalla Peste Nera.

Sono pochissimi, purtroppo, le aree o i centri del vecchio continente ad essere risparmiati, totalmente o parzialmente, dalla furia del morbo. Si tratta, segnatamente, di una piccola area nei Pirenei occidentali, di altra, più minuscola, facente parte del moderno Belgio, di Liegi e di Milano.

10. Segue: f) Sultanato Mamelucco, relativi stati vassalli (o tributari) e Africa.

Nel 1347, la peste, proveniente da Costantinopoli (via Creta e Cipro), raggiunge il Sultanato Mamelucco, un territorio che, all’epoca, comprendeva, inclusi gli stati vassalli o tributari, la Libia settentrionale, l’Egitto, le aree occidentali della penisola araba (fino a Jeddah e La Mecca), la Giordania, Israele, il Libano, la Siria e una piccola parte della Turchia sudorientale: tutti, naturalmente, da intendersi nei moderni confini. Da Alessandria, dove sbarca, il morbo si diffonde sia a Ovest sia, soprattutto, al Cairo, città già al tempo densamente popolata. Proprio dal porto e dalla capitale, la patologia, nel 1348, raggiunge Aleppo, dopo aver attraversato, nel medesimo anno, Gaza, Gerusalemme, Damasco, Homs e Hamah. Dalla stessa Aleppo, la peste arriva a Baghdad nel 1349, così colpendola una seconda volta. Certamente, la malattia flagella anche Antiochia e Edessa, così come vari centri sul Nilo e sul Mar Rosso o nelle immediate vicinanze di questo. Con ogni probabilità, il morbo cagiona diversi lutti anche in altri centri del Sultanato e negli Stati vassalli o tributari. È certo, in ogni caso, che la peste, nel 1348 o nel 1349, arriva a Medina e alla Mecca. Quest’ultima, però, oltre che meta carovaniera, era anche (com’è tuttora) la città più sacra dell’Islam, e dunque destinazione di moltissimi fedeli musulmani. In conseguenza, è assolutamente impossibile stabilire da quale luogo sia giunto quello che oggi sarebbe definito paziente zero. Discusso, fra gli esperti, se i bacilli pestosi abbiano raggiunto le aree a Sud del Corno d’Africa. Si tratta, ad ogni modo, di un’ipotesi plausibile, atteso che Mogadiscio era uno dei porti preferiti dal commercio arabo, ma anche considerando che i locali si recavano in pellegrinaggio alla Mecca. Certo, invece, che il morbo, proveniente dalla Sicilia, raggiunge Tunisi nel 1348. Da qui, nello stesso anno e nel successivo, si propaga verso tutti i punti cardinali, per via marittima o terrestre, cagionando lutti, anche numerosi, in varie città.

11. Il bilancio della pandemia.

I dati disponibili non consentono di indicare, in maniera precisa, il numero dei morti per la pandemia del XIV secolo. Del resto, è assolutamente impossibile conteggiare i tantissimi uomini e donne senza nome presenti soprattutto nelle campagne. Persone invisibili, di cui persino le autorità ignoravano l’esistenza e i cui cadaveri, almeno in qualche caso, sono stati sbranati. Scrive, in proposito, lo storico Agnolo di Tura: «nel contado, i lupi e le fiere selvatiche si mangiavano i corpi mal sotterati». In breve, c’è stato certamente un gran numero d’individui della cui morte non è rimasta alcuna traccia. Pertanto, è necessario affidarsi alle stime dei vari esperti che si sono occupati della questione. Pressoché tutti sono concordi nell’indicare in 20/25 milioni la cifra dei decessi in Europa, pari a un terzo della popolazione che, fra il 1347 e il 1353, abitava lo stesso continente. Si tenga presente, però, che la patologia, secondo gli stessi studiosi, ha conseguenze catastrofiche soprattutto nella superficie che va dal Regno del Portogallo alla metà circa di quello d’Ungheria, includendo i domini settentrionali. In altre parole, diverse città italiane, della Francia (intesa negli attuali confini), della penisola iberica, del Regno d’Inghilterra e dell’Impero Romano Germanico, ma anche Budapest (Buda e Pest), Copenaghen e Lund, perdono dal 30/35 al 65/70 per cento dei loro abitanti. In alcuni villaggi, soprattutto degli odierni Regno Unito e Francia, le percentuali sono addirittura apocalittiche: ad esempio, a Gaywood e Paston, entrambi nel Norfolk, muoiono fra otto e nove residenti ogni dieci. Conseguenze appena meno drammatiche occorrono in molti altri centri, fra cui Napoli, Roma, Madrid, Oporto, Innsbruck, Ginevra, Digione, Reims, Anversa, Amsterdam, Bergen e Oslo. A Oriente, invece, i tassi di mortalità sono inferiori: probabilmente, per le grandi distanze esistenti fra le città principali. Al contrario, quanto all’Asia e all’Africa, gli studiosi hanno opinioni divergenti, poiché non tutti sono certi che la pandemia abbia interessato il subcontinente indopakistano e il Sud-Est asiatico, forse la Cina, oltre la Somalia ed altri vari territori cui si è fatto cenno nel corso del presente capitolo. Un certo accordo esiste soltanto per il Sultanato Mamelucco, in cui il tasso di mortalità è stimato fra le quarantacinque e le cinquantacinque persone ogni cento. Naturalmente, gli esiti più tragici li subisce la città più popolosa, il Cairo, per altro raggiunta, durante la pestilenza, da numerosi individui che abitavano nei dintorni. Si pensa che nella capitale almeno 162.000 persone, su un totale di circa 300.000 soggetti esposti, non sopravvivano alla malattia. Crudeli pure i numeri che riguardano sia Alessandria – 50.000 morti su 105.000 abitanti – sia i centri più a Est. I decessi sono indicati in 21.000 a Gaza, in 25.000 a Gerusalemme, in 36.500 a Damasco, in 12.300 a Homs e in 18.000 ad Aleppo, su un totale di 200/210mila persone che ivi vivevano. Per le altre città o zone dei due continenti in parola, nessun dubbio che molte abbiano pagato un tributo altissimo in termini di vite: tuttavia, le indicazioni generali sulle cifre dei morti di Peste Nera, come accennato, sono discordanti. In ogni modo, e in sintesi, si ritiene che, in Asia e Africa, sia deceduto, a causa della patologia, un numero di persone oscillante fra un minimo di cinquanta e un massimo di centottanta milioni. In conseguenza, globalmente, i morti di peste sono stimati fra 70/75 e 180/200 milioni. Cifre colossali, che, anche nell’ipotesi più ottimistica, rendono la pandemia del Trecento la più grave catastrofe umana di tutti i tempi. Nessun altro evento ha cagionato, in proporzione al numero di abitanti del pianeta, un decremento demografico di quella portata.

12. La diffusione e le conseguenze della peste in Italia.

L’Italia è il primo territorio dell’Europa occidentale a essere investito dalla pestilenza che proviene da Oriente. Il francescano Michele De Piazza, ma più probabilmente un Autore rimasto sconosciuto, sostiene: «nell’ottobre del 1347 dodici galee genovesi attraccarono nel porto di Messina, portando con sé una malattia così grave che era sufficiente parlare con uno di loro per essere infettati». Nei due mesi successivi, gli stessi navigli, scacciati da messinesi ormai moribondi per il contagio occorso, ma anche altri con diverse destinazioni già stabilite alla partenza, raggiungono vari scali della Penisola. Tutti diventano delle autentiche teste di ponte che permettono ai bacilli di diffondersi verso l’interno e colpire con particolare ferocia. Molte città, ma anche le campagne, subiscono conseguenze altamente drammatiche. L’unica eccezione è rappresentata da Milano: un caso pressoché unico durante la Peste Nera, almeno nella parte a Ovest del continente, del quale ci si occuperà in altro capitolo.

13. Gli storici dell’epoca: a) Gabriele De Mussi.

Della diffusione e degli effetti della Morte Nera in Italia, sono stati testimoni diversi storici del tempo. Il primo che si vuol richiamare è Gabriele de Mussi (o de Mussis), piacentino già incontrato in altra parte del presente capitolo. Questi riferisce che «dalla già ricordata città di Caffa, con alcune navi, governate da marinai certo ancora vivi ma comunque già contagiati dal morbo, si raggiunse Genova, con altre Venezia e con altre ancora altre regioni della cristianità. Può sembrare incredibile: non appena i marinai scendevano a terra in una qualche località ed entravano in contatto con delle persone, queste morivano». Poi aggiunge: «parla, o Genova, di cosa hai fatto. Raccontate, Sicilia e Isole Pelagie, del giudizio di Dio. Riferite, Venezia, Toscana e l’Italia intera, cosa avete fatto. Noi, Genovesi e Veneziani sopportiamo la responsabilità per aver rivelato il giudizio di Dio. Ahimè, la volta che le nostre navi ci condussero al porto noi ci recammo nelle nostre case. E […] parenti, familiari e vicini accorsero per noi da tutte le parti. Ma […] noi stavamo trasportando i dardi della morte. Mentre loro ci abbracciavano e ci baciavano noi stavamo diffondendo veleno dalle nostre labbra anche quando parlavamo. Quando tornarono dalle loro genti, queste persone avvelenarono velocemente l’intera famiglia, e nell’arco di tre giorni la famiglia ammalata non avrebbe potuto far altro che soccombere al dardo della morte». Una cronaca, evidentemente, che restituisce l’angoscia di chi avverte la responsabilità di un tragico accadimento, di chi si considera causa prima della sofferenza dell’intera Italia, nel presente e nel prossimo futuro. Lo storico in argomento racconta anche come la peste avrebbe raggiunto la sua città: «nell’estate del 1348 un genovese si recò nei dintorni della città. Anche lui era colpito dalla disgrazia […]. Quando la sua malattia fu manifesta, andò a trovare un uomo che lo assistesse in quella sua sventura e al quale era legato da vincolo di amicizia. Fu accolto ma morì poco dopo. E poco dopo ancora morì con tutta la sua famiglia e molti dei suoi vicini anche colui che lo aveva curato. Così, in pochissimo tempo la peste si diffuse e raggiunse Piacenza […]. Ovunque si levavano pianti e lamenti […]. La morte mieteva vittime ed era così crudele che gli uomini potevano a malapena respirare».

14. Segue: b) Agnolo di Tura.

Altro storico vissuto nei terribili anni della pandemia del Trecento è il toscano Agnolo di Tura, ritenuto l’autore di un’opera, prosecuzione di altra scritta da Andrea Dei, in cui sono raccontati i fatti accaduti dal 1329 al 1351, soprattutto a Siena. In questa città, «la mortalità cominciò […] di magio [del 1348], la quale fu oribile e crudel cosa, e non so da qual lato cominciare la crudeltà che era e modi dispiatati che quasi a ognuno pareva che di dolore a vedere si diventavano stupefatti; e non è possibile a lingua umana a contare la orribile cosa, che ben si può dire beato a chi tanta oribilità non vidde. E morivano quasi di subito, e infiavano di sotto il ditello [l’ascella] e l’anguinaia [l’inguine] e favellando cadevano morti […]. Questo morbo s’attachava coll’alito e co’ la vista pareva, e così morivano, e non si trovava chi seppellisse né per denaro né per amicitia, […] e in molti luoghi in Siena si fe’ grandi fosse e cupe per la moltitudine de’ morti, e morivano a centinaia il dì e la notte». Molti cadaveri, per altro, sono malamente sepolti, al punto da diventare cibo per gli animali randagi: «e anco furo di quelli che furono sì mal coperti di terra, che li cani ne trainavano, e ne mangiavano di molti corpi per la città». La peste uccide cinque figli del cronista – «io Agnolo di Tura […] sotterrai miei V figlioli co’ le mie mani» – e induce le autorità a proibire i funerali: «e non suonavano campane, e non c’era alcuno che piangesse alcuno morto». Agnolo di Tura si sofferma anche sull’arrivo del morbo nella Penisola: «le galee de’ Genovesi tornaro d’oltramare […] e tornaro con molta infermità e corutione d’aria la quale era oltremare, inpercohè in quel paese d’oltremare morì in questo tempo grande moltitudine di gente di morbo e pestilentia […]. Le dette galee tenero per la Cicilia e lassorovi grande infermità e mortalità […] e così gionti a Gienova di fatto v’attacoro il morbo grandissimo e morivavi molta gente, e durò questo più semane e continuo cresceva il detto morbo e per questo tutti quelli navili furono tutti cacciati di Gienova, e così si partiro quelle maledette galee».

15. Segue: c) Marchionne di Coppo Stefani, al secolo Baldassarre Bonaiuti.

Un terzo cronista degno di menzione è Marchionne di Coppo Stefani, nato Baldassarre Bonaiuti (1336-1385), Autore della Cronaca fiorentina. Così si esprime: «negli anni del Signore MCCCXLVIII [1348] fu nella città di Firenze e nel contado grandissima pistilenzia, e fu di tale furore e di tanta tempesta, che nella casa dove s’appigliava chiunque servia niuno malato, tutti quelli che lo’ serviano, moriano di quel medesimo male, e quasi niuno passava lo quarto giorno, e non valeva né medico, né medicina […] non parea che rimedio vi fosse. Fu di tanta paura che niuno non sapea che si fare; quando s’appigliava in alcuna casa, spesso avvenia che non vi rimanea persona che non morisse. E non bastava solo gli uomini e le femmine, ma ancora gli animali […] gatte, polli, buoi, asini e pecore moriano di quella malattia […]. Tutta la città non avea a fare altro che a portare morti a seppellire».

16. Segue d) Matteo Villani.

Dulcis in fundo, Matteo Villani, storico nato sul finire del Duecento e morto proprio di peste nell’epidemia che colpisce Firenze nel 1363. Così si esprime: «Cominciossi nelle parti d’Oriente in verso il Cattai e l’India superiore, e nelle altre provincie circustanti a quelle marine dell’oceano, una pestilenzia tra gli uomini d’ogni condizione, di ciascuna età e sesso, che cominciavano a sputare sangue, e morivano chi di subito, chi in due o in tre dì, e alquanti sostenevano più al morire». In altra parte del presente capitolo, si è già rilevato qual è il probabile luogo di origine della Morte Nera, che non coincide esattamente con quelli indicati dal cronista toscano. Nondimeno, non si può non notare l’efficace, ancorché inconsapevole, descrizione della peste polmonare e dei suoi effetti invariabilmente drammatici su uomini e donne, bambini e anziani, ricchi e poveri, nobili e plebei. Un morbo feroce, del quale il Villani tramanda un itinerario: «questa pestilenzia si venne di tempo in tempo, e di gente in gente apprendendo, comprese e uccise infra il termine d’uno anno la terza parte del mondo che si chiama Asia. E nell’ultimo di questo tempo s’aggiunse alle nazioni del Mare Maggiore, e alle ripe del Mare Tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso lo Egitto e la riviera del Mar Rosso, e dalla parte settentrionale la Rossia e la Grecia […] e l’altre conseguenti provincie». Alla luce delle attuali conoscenze, e perdonando qualche inesattezza, il percorso della peste indicato dallo storico in argomento appare straordinariamente preciso. Dal «Mare Maggiore», ossia dal Mar Nero, la pestilenza raggiunge effettivamente il Tirreno, per poi diffondersi in Europa fino alla «Rossia», in Egitto, in Siria e così via. In proposito, sia assolutamente chiaro che gli elementi geografici a disposizione nel Trecento erano piuttosto vaghi. Sentendo nominare il Cattai e l’India, o la stessa Persia, pochissimi uomini europei erano in grado di immaginare le relative realtà. Al tempo, le informazioni sull’Asia, nonostante i racconti di Marco Polo (1254-1324), erano molto limitate. Del resto, ancora nel XV secolo, i planisferi avrebbero presentato enormi lacune sulle regioni interne del medesimo continente. Matteo Villani, però, era evidentemente fra quei pochi. Conosceva la geografia, come per altro si evince da vari passi della Cronica, opera già iniziata dal fratello Giovanni, ucciso dalla peste nel 1348. Le notizie sulla sua vita sono poche, ma proprio dai suoi scritti si evincono le sue capacità in retorica, in storiografia e nell’ars dictandi (in sintesi, la scrittura di lettere di rilievo). Di certo, aveva letto numerose opere di Autori coevi o del passato. E non gli erano oscure materie come la politica, l’astronomia, addirittura la climatologia. Forse poco conosciuto, Matteo Villani è stato invece un uomo eccezionale.

17. La peste nel Sultanato Mamelucco: Ibn Baṭṭūṭa.

In un’ideale classifica dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi, un posto d’indubbio rilievo lo occupa Muḥammad ibn ’Abd Allāh ibn Muḥammad al-Lawātī al-Ṭanǧī, che, per buona sorte dei lettori europei (e di chi scrive), è conosciuto semplicemente come Ibn Baṭṭūṭa (1304-1369). Nativo di Tangeri, nell’odierno Marocco, ha visitato, fra il 1325 e il 1354, una gran parte del mondo allora conosciuto. Intesi nei moderni confini e in ordine sparso: la Spagna meridionale, la Sardegna, l’intera Africa settentrionale, la penisola araba, l’Iran e l’Iraq, l’Anatolia, l’Afghanistan, il Pakistan, l’India, Sri Lanka, il Sudest asiatico, la Cina, la Somalia, il Kenya, la Tanzania, il Niger, il Mali e la Mauritania. In un’epoca in cui i mezzi di locomozione erano molto pochi, si tratta di un’impresa straordinaria. In ogni modo, per limitarsi agli scopi del presente lavoro, sufficiente rilevare che l’islamico, nella sua opera nota come Rihla (I viaggi), racconta la pestilenza che incontra nel Sultanato Mamelucco. Nel 1348 (749 dell’Egira), è di stanza ad Aleppo, quando gli giunge notizia di una malattia esplosa a Gaza, che si diffonde con grande velocità. Decide di lasciare la città e di muoversi verso Sud, evitando, però, di entrare a Homs, dove il morbo è arrivato, e dirigendosi verso Damasco. Qui i decessi sono molto numerosi, anche se forse non esattamente «duemila al giorno», come sostenuto proprio da Ibn Baṭṭūṭa. Quest’ultimo, ad ogni modo, descrive in maniera straordinaria la tragedia della città, pur non spiegando come riesca a sottrarsi al contagio. Abbandona l’odierna capitale siriana nel mese di luglio, mentre intorno ancora infuria la peste, e si dirige a Gerusalemme, ove la virulenza è invece un po’ diminuita. Quindi, si sposta in Egitto, riferendo come alcuni centri, da lui visitati in precedenza, nel pieno del loro splendore, siano stati ridotti, dal morbo, a luoghi in cui regnano dolore e desolazione. Ad Alessandria e al Cairo, in particolare, sono morte decine di migliaia di persone. Sconfortato, Ibn Baṭṭūṭa decide di rientrare nella sua città natale, che raggiunge nel 1354 (755 dell’Egira), dopo alcune deviazioni.

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