Dopo la pandemia, la peste colpisce duramente l’Europa (e non solo) ancora nel Trecento e per diversi secoli successivi, presentandosi a ondate.
1. La peste manzoniana.
L’epidemia più celebre, grazie a Alessandro Manzoni (1785-1873), è quella – nota proprio come Peste Manzoniana – che colpisce il nord e parte del centro della Penisola italiana fra il 1630 e il 1631, infuriando con particolare violenza nella città di Milano. La diffusione è favorita dalla fame sofferta dal popolo nei due anni precedenti, ma soprattutto dal movimento di soldati occorso durante la guerra per la successione di Mantova, in cui la Spagna è opposta alla Francia.
2. I lanzichenecchi in Italia. – Il contagio entra in Italia a seguito della discesa dei soldati al comando di Rambaldo XIII di Collalto (1579-1630). Fra le truppe serpeggia il morbo, e le autorità sanitarie milanesi, che ne sono consapevoli, temono che lo stesso possa diffondersi. In conseguenza, Alessandro Tadino (1580-1661), noto medico del tempo e membro proprio del Tribunale della Sanità, fa presente il pericolo al governatore, don Gonzalo Fernández de Córdoba (1585-1635), invitandolo ad assumere provvedimenti di prevenzione. Il politico, però, replica che il passaggio dei lanzichenecchi dipende da esigenze militari, e dunque la sola possibilità è affidarsi alla Provvidenza. Analoghe richieste, nella seconda metà del 1629, sono respinte pure da Ambrogio Spinola (1569-1630), che, dal mese di luglio, è subentrato a don Gonzalo nella carica. Soltanto il 29 novembre dello stesso anno è emanato un provvedimento che impone un cordone sanitario, ma è tardi. Il morbo, ormai, è entrato a Milano. Il paziente zero, come si definirebbe oggi, è tal Pietro Antonio Lovato (oppure Pier Paolo Locati), un giovane che aveva acquistato da un lanzichenecco un fagotto di vesti.
3. La peste a Milano. – Fra la fine del 1629 e i primi due mesi del 1630, i casi non sono molti. Pertanto, le autorità cittadine non manifestano grandi preoccupazioni, e al popolo non è impedito, fra l’altro, di festeggiare il carnevale. La stessa gente sa dei decessi, ma nasconde le proprie paure attribuendoli a febbri malariche o altre malattie diverse (e meno gravi) della peste. Tuttavia, dal mese di marzo di quello stesso anno, la patologia inizia a flagellare Milano, e via via maggiore è il numero di malati che affluiscono al lazzaretto, costruito poco più di un secolo prima fuori da Porta Orientale. A maggio, i casi sono oltre quaranta al giorno, e si decide quindi di aprire un secondo ricovero al Gentilino. Lo stesso, affidato ai padri carmelitani, diventa attivo l’8 giugno.
4. Gli untori. – Quotidianamente, la malattia miete sempre più vittime. Una solenne processione che si svolge l’11 giugno, senza alcuna obiezione da parte del Tribunale della Sanità, e che coinvolge migliaia di persone, contribuisce certamente all’aumento dei casi. Nel Seicento, è noto da tempo che la peste è una malattia contagiosa, ma nessuno ha ancora compreso esattamente come la stessa si diffonda. I responsabili della diffusione stessa, già nelle settimane precedenti il corteo religioso, sono stati individuati negli untori, uomini che spargono intrugli velenosi utili, appunto, a far propagare la peste. L’ignoranza genera pregiudizio: durante la pandemia del Trecento, erano stati gli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi, i principali capri espiatori, e quindi le vittime, in gran numero, di folle inferocite. Tre secoli dopo, come accennato, i colpevoli sono gli untori. Le voci su costoro si rincorrono veloci, trovando addirittura conferma nelle opinioni di alcuni dotti del tempo: la gente ne va a caccia con furore, e in preda alla psicosi ritiene di vederli all’opera in vari luoghi. Alcuni sono linciati, altri si salvano per un pelo. Nei confronti degli untori, sono pure condotte delle inchieste: molte terminano con un nulla di fatto, ma Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora costituiscono l’eccezione. Accusati, appunto, di diffondere la peste con intrugli, finiscono sul patibolo (1° agosto 1630) dopo un procedimento in cui la loro confessione è estorta con la tortura. Altre undici persone, chiamate in correità, subiscono la stessa sorte. Una di loro, per ironia della storia, si chiama Manzoni (Francesco).
5. Estate 1630: il picco dell’epidemia. – Nell’estate del 1630, il numero di casi, e quindi di decessi, a Milano, diventa catastrofico. Agli inizi di luglio, i morti, appunto, sono circa cinquecento al giorno, per arrivare a toccare quota mille, forse di più, fra la fine dello stesso mese e i primi dieci o quindici giorni di settembre. Naturalmente, anche la popolazione dei lazzaretti cresce in maniera esponenziale. I tantissimi decessi – negli stessi ricoveri, nelle case o in altri luoghi – rendono necessario aggiungere alla prima immensa fossa comune, scavata nel lazzaretto vecchio, altri luoghi identici di sepoltura. Il trasporto dei malati o dei cadaveri è affidato ai monatti, incaricati a tali scopi dal Tribunale della Sanità. Si tratta di personaggi che Manzoni non esita a qualificare con attributi che evidenziano il suo disprezzo nei loro confronti. Lo scrittore non ha torto: i monatti, muovendosi indisturbati, derubano sovente gli ammalati o ne minacciano le famiglie a scopi estorsivi. E non mancano storici i quali ritengono che proprio questi loschi figuri siano stati i veri untori. Vale a dire, personaggi che, interessati ai guadagni, dipendenti dal permanere del morbo, avrebbero diffuso l’infezione lasciando volontariamente nelle vie abiti o altri oggetti degli appestati. Ai monatti si contrappongono gli ecclesiastici: dal cardinale Federico Borromeo (1564-1631), arcivescovo della città, che senza paura visita i sofferenti, restando illeso dal contagio, ai padri cappuccini, che confortano costantemente il popolo dei lazzaretti e si preoccupano di benedire i cadaveri dei deceduti.
6. I rimedi e le opinioni. – Dopo la pandemia del Trecento, in molte città dell’Europa occidentale, e soprattutto in Italia, erano stati istituiti Tribunali di Sanità, o organismi analoghi, che possedevano pieni poteri durante le epidemie. Inoltre, nei tre secoli trascorsi da quel terribile evento, il progresso medico aveva consentito un certo approfondimento sulla peste. Del resto, come si vedrà, i sanitari del continente, già prima del 1630, erano stati più volte costretti a scontrarsi con la stessa patologia. Tuttavia, il dibattito sulla prevenzione, nel Seicento, è ancora aperto: a medici che riconoscono l’utilità degli isolamenti, si oppongono colleghi che la negano. Fra questi ultimi, Ludovico Settala (1550-1633), che pure, al tempo, è considerato un luminare e che, nel 1622, ha fatto pubblicare la sua opera: il De peste, & pestiferis affectibus. Libri quinque, che contiene, fra l’altro, una serie di pratiche sanitarie considerate utili per la cura degli appestati. La causa della malattia, naturalmente, è ancora sconosciuta: in linea di massima, si ritiene che la peste sia un castigo divino, e Tadino, nella congiunzione di due pianeti, ne vede il presagio. Lo stesso Alessandro Manzoni avrebbe considerato il morbo come una tremenda prova inviata da Dio agli uomini, secondo i Suoi incomprensibili disegni. Pertanto, diventa esercizio inutile quello di cercare una logica nell’azione di una malattia che ha ucciso indifferentemente uomini buoni o malvagi. Infatti, vero che la peste «è stata una scopa [che] ha spazzato via certi soggetti, che […] non ce ne liberavamo più» (don Abbondio), ma anche che «la condotta più cauta e innocente non basta a tener lontani i guai» (padre Cristoforo). E lo stesso Autore de I Promessi Sposi, se da un lato presenta Renzo e Lucia come persone che accettano la malattia con cristiana rassegnazione, da un altro si fa beffe di don Ferrante, convinto che quella sia provocata dalla fatale congiunzione di Saturno con Giove: «su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».
7. Il tragico bilancio dell’epidemia. – In linea di massima, l’epidemia termina nel primo semestre del 1631, e a Milano, segnatamente, fra i mesi di gennaio e febbraio del medesimo anno. Nondimeno, casi isolati di contagio e di morte occorrono fino al 1633. Un calcolo dei decessi, in assenza di dati precisi, non è possibile. Giuseppe Ripamonti (1573-1634) e Alessandro Tadino, autori di opere storiche cui sovente fa riferimento il Manzoni, narrano, rispettivamente, di 140.000 e 165.000 vittime soltanto a Milano. Stime recenti riportano cifre maggiori o minori. Complessivamente, si ritiene che, fra il 1630 e il 1631, nei territori peninsulari investiti dal morbo– l’intera Italia settentrionale e parte delle odierne Emilia-Romagna e Toscana – siano decedute, nelle città e nelle campagne, 1.100.000 persone, corrispondenti al 27-28 per cento del totale degli abitanti, sebbene le percentuali, appunto, siano state diverse nei vari luoghi colpiti. D’altronde, se le autorità meneghine, come accennato, si dimostrarono ignave nell’affrontare l’epidemia, non così quelle torinesi, bolognesi, fiorentine, in parte veneziane, più abili a contenere la diffusione del morbo. Quanto al numero dei morti nell’attuale Svizzera, attraversata dai lanzichenecchi, e quindi certamente costretta a piangerne diversi, non si son trovate attendibili stime.
8. La madre di Cecilia. – Il contesto de I promessi sposi è storico, e l’Autore descrive l’epidemia con il relativo scrupolo, richiamando spesso le fonti in suo possesso ed evidenziando, in particolare, la grave negligenza delle autorità di Milano nel sottovalutare il rischio del contagio, e poi la responsabilità delle stesse nel tacere o minimizzare la pestilenza quando essa è già esplosa. E ispirato proprio a un episodio realmente accaduto – descritto dal cardinale Borromeo nel suo De pestilentia, scritto nel 1630 – è uno dei brani più toccanti ed espressivi dell’intera opera del Manzoni. Questo è noto come La madre di Cecilia, ed è riportandolo che si vuole terminare il racconto della notissima epidemia del Seicento, e quindi il capitolo corrente.
«Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affacendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato».