1. SCIAMANESIMO E LICANTROPIA CLINICA
La storia della immedesimazione o trasformazione da uomo a lupo sembra essere antichissima: a partire dai riti sciamanici della preistoria se ne trovano tracce praticamente in tutte le culture. Già più di 30.000 anni fa, il cosiddetto uomo di Hohlenstein-Stadel mostra le fattezze di quello che nell’immaginario comune diverrà il lupo mannaro: un individuo con la testa di una belva feroce.
Secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986), lo sciamanesimo era innanzitutto la padronanza delle tecniche estatiche: lo sciamano infatti era l’intermediario presso gli spiriti, ma anche un temibile guerriero pervaso dalla potenza divina. Non era solo posseduto, ma dominava gli spiriti per l’utilità della tribù, usando l’estasi per entrare in contatto con il divino. Gli sciamani guerrieri appartenevano ad una casta a parte e si dividevano in gruppi che prendevano il nome dal loro animale totemico: uno su tutti il lupo.
La scienza medica può fornire qualche spiegazione plausibile per la nascita delle leggende sugli uomini-lupo.
Si potrebbe per esempio far riferimento a una ben definita sindrome genetica, nota come ipertricosi congenita generalizzata: una rara malattia caratterizzata da un’anormale presenza dei capelli su tutto il corpo, viso compreso, che può manifestarsi fin dalla nascita. Prende il nome di Sindrome di Ambras con riferimento alla descrizione che ne fece il naturalista italiano Ulisse Aldrovani (1522-1605) quando la descrisse per la prima volta nel caso di Petrus Gonzales, uomo che malgrado la patologia riuscì a vivere una vita normale. Un’altra ipotesi potrebbe vertere più sugli aspetti comportamentali, talvolta gravemente psicopatologici, connotando una vera e propria malattia psichiatrica. Si tratta infatti di una forma delirante di mutamento somatico in cui il soggetto si immedesima in tutto e per tutto nell’animale. La sindrome fa capo alle teriantropie, psicopatie che fanno credere all’essere umano di trasformarsi in un animale assumendone i comportamenti, il più delle volte appunto un lupo.
2. GLI ULFHEDNAR
Nella mitologia e nella cultura norrena gli uomini-lupo rivestono grande importanza, ma è necessario fare una distinzione fondamentale tra i licantropi veri e propri, ossia uomini che mutano il proprio corpo fino a divenire lupi, noti in norreno come vargulfr, e gli ulfhednar, che nonostante l’atteggiamento animalesco rimangono comunque umani.
Una testimonianza è data dalla leggenda dei Volsungar, una saga in prosa redatta alla metà del XIII Secolo da un autore sconosciuto, che narra la storia della dinastia dei Volsunghi. Nel quinto canto a trasformarsi in lupo è la madre di re Sigger, facendo uso delle proprie arti magiche. La regina-lupa si diverte, nella leggenda, a infierire sui figli di Volsung, che erano stati fatti prigionieri in battaglia dal proprio figlio; dei dieci uomini, nove vengono uccisi. Sopravvive Sigmund, aiutato dalla gemella Signi, che è anche moglie di re Sigger. Questa gli cosparge il volto di miele e la notte il lupo mannaro si ingolosisce, sentendo l’odore, ma gli lecca il volto anziché sbranarlo. Prontamente Sigmund gli afferra la lingua con i denti e la belva se la strappa per liberarsi. Nel tentativo, si procura una ferita che la uccide e, contemporaneamente, spezza i ceppi di Sigmund, liberandolo. Il tema del lupo mannaro torna nel canto ottavo; qui Sigmund e il nipote Sinfjotli giungono, attraverso una foresta, a una casa dove dormono due uomini di nobile stirpe. Sopra di loro sono appese delle pelli di lupo: si tratta di due principi stregati da un incantesimo, a causa di cui devono sempre mostrarsi in forma di lupo e solo una volta ogni cinque giorni possono riprendere sembianze umane. Sigmund e il nipote, incuriositi dalle pelli, le rubano, facendo ricadere su di sé la maledizione. Assumono sia le sembianze che la natura di lupi, e iniziano a aggredire gli uomini.
La particolarità di questa narrazione è che la trasformazione è dovuta a stregoneria o all’indossare delle pelli di lupo. È un chiaro riferimento agli ulfhednar, il cui nome significa proprio “casacche di lupo”: un clan di guerrieri che riprende antiche pratiche sciamaniche diffuse nelle società antiche anche grazie all’assunzione di misture allucinogene. Va notato che buona parte delle saghe nordiche sono state scritte dopo l’avvento del Cristianesimo. Questo ha fatto una cattiva propaganda alle antiche religioni pagane, presentando le divinità nordiche quasi sempre sconfitte o sovrapposte dai santi cristiani, demonizzando i lupi, i guerrieri e le figure selvagge a essi associati: gli ulfhednar e i berserkir, quest’ultimi legati al totem dell’orso.
Un altro esempio è la “Saga di Egill Skallagrimsson” (Egils saga), un poema epico islandese risalente alla terza o quarta decade del XIII Secolo, anche questo anonimo, sebbene Snorri Sturluson (1179-1241) sia indicato come possibile autore. Protagonista della saga è, appunto, Egill, un contadino islandese divenuto un vichingo e poi uno scaldo, il cui nonno era Ulfr Bjalfason. Di fisico robusto e possente, imbattibile in battaglia, alla sera si incupiva e diveniva nervoso, andando a letto presto, tanto che la gente prese a considerarlo come un mutaforma e a chiamarlo col nome di Kveldulfr (“lupo della sera”), un personaggio noto e ricorrente in altre saghe islandesi, ad esempio nel “Landnámabók” (manoscritto sulla colonizzazione islandese).
Come ricorda Gianna Chiesa Isnardi (1949-2016), la presenza di molti nomi di persona composti con ulfr (lupo, in norreno) indica le diverse credenze e tradizioni legate all’animale. Si pensi a Ulfr, Biornolfr, Hrolfr, Hundolfr, Radulf.
Un altro esempio di licantropia nelle saghe nordiche è nella “Saga di Giovanni il Giocatore” (Jons saga leikara), un poema cavalleresco del XIV Secolo, ispirato ai lai francesi, che racconta la storia di Jon (Giovanni, appunto), un giovane nobile francese che parte in cerca di avventure. Dopo aver ucciso un drago, riceve un lupo in premio, scoprendo che in realtà il lupo è Sigurdr, figlio del re delle Fiandre, mutato in bestia da una perfida matrigna che gli aveva scagliato un maleficio contro.
Anche Olao Magno (1490-1557) racconta, nella sua “Historia de gentibus septentrionalis”, di uomini feroci che per magia mutano in lupi, dedicando loro il capitolo XXXII del libro XVIII. La notte di Natale è il giorno dell’adunanza e «la notte medesima con meravigliosa ferocità incrudeliscono, e contro la generatione humana, e contro a gl’altri animali, che non son di feroce natura, che gl’habitatori di quelle regioni patiscono molto più danno da costoro, che da quei che naturali Lupi sono, non fanno. Percioche, come s’è trovato, impugnano con meravigliosa ferocità a le case de gl’huomini, che stanno nelle selve, e sforzansi di romperle le porte, per poter consumare gl’uomini e le bestie che vi son dentro» [traduzione dal latino di Remigio Fiorentino (1521-1581), Venezia, 1561].
Questi uomini scendono nelle cantine e le svuotano. Addirittura Olao Magno riferisce di alcuni che, mutati in lupo, rubano pecore, soprattutto in Livonia, dove, a sentir lui, ve ne è numero maggiore.
Gli Úlfheðnar sono guerrieri fedeli a Odino, nel suo aspetto di dio della guerra. Sono devoti e consacrati nell’anima, al punto da rinunciare alla loro natura umana per ascendere al divino.
Il termine ulfhednar (al singolare: ulfhedinn) è formato dalla radice ulfr (come noto, lupo) e da hedinn, ossia casacca, intesa dalla Isnardi come «corto capo di vestiario senza maniche con cappuccio di pelle». Una rappresentazione è data da una piastra di bronzo che probabilmente decorava un elmo, rinvenuta a Torslunda in Oland (Svezia), risalente al V-VI Secolo, dove è raffigurato un guerriero con un corpo umano su cui è innestata una testa di lupo; indossa una pelle di lupo e ha persino una coda sporgente. Le sue armi sono spada e lancia, arma sacra a Odino (possessore della celebre lancia Gungnir).
3. IL LUPO MANNARO NELLA LETTERATURA MEDIEVALE
Sono tantissimi gli esempi di opere medievali che trattano il tema della licantropia, anche se non come oggetto centrale della narrazione, ma come punto fondamentale per lo sviluppo della trama, introducendo colpi di scena, elementi magici o soluzioni per giungere all’epilogo.
Ne “Il canto della schiera di Igor”, un unicum nella letteratura russa, scritto nel XII Secolo in antico slavo orientale (antico russo). Il poema narra della campagna fallimentare di knjaz Igor’ Svjatoslavič, principe di Severia, contro i Cumani. Qui, tra una forma altissima di poesia evocativa e intrecci politici, spicca la figura del principe di Polock, sanguinario stregone in grado di trasformarsi in lupo nella notte grazie ai poteri ereditati dal padre.
«Il principe Vseslav amministrava la giustizia, e governava i principi delle città, nella notte però galoppava come lupo, prima del canto del gallo correva da Kiev fino a Tmutorokan… Benché avesse un cuore di stregone in quel doppio corpo, nondimeno patì sventure.»
In questo passo ne viene descritta la licantropia, la doppia natura di uomo e lupo nonché la capacità, una volta trasformato in fiera, di spostarsi in una sola notte da una città all’altra, in questo caso per circa un migliaio di chilometri.
Nel XIII Secolo, invece, nel poema dal titolo “Guillaume de Palerme”, il principe spagnolo Alfonso viene trasformato in lupo dalla cattiva matrigna. Egli si riscatterà grazie all’aiuto prestato ai due innamorati del romanzo: Guglielmo e Melior. Infatti, Alfonso è un licantropo buono e gentile che, proteggendo e aiutando i protagonisti, potrà tornare umano e sposare la sorella dello stesso Guglielmo
4. IL LAI DI MARIA DI FRANCIA
Non si sa molto di Maria di Francia, se non che è la più antica poetessa francese: nata in Normandia e vissuta in Inghilterra nella seconda metà del XII Secolo, era una donna molto colta alla corte di Eleonora d’Aquitania (1122-1204) e di Enrico II Plantageneto (1133-1189). Conosceva il latino, l’inglese, la letteratura contemporanea francese, quella provenzale e in particolare la letteratura cortese. Tra le sue opere si annovera una raccolta di dodici lais, di cui uno incentrato sulla figura di un lupo mannaro: si tratta di un componimento poetico-musicale che canta storie del ciclo bretone e in particolare narra di un cavaliere di re Artù che ogni mese scompare senza comunicare a nessuno dove si trovi. Alle serrate domande della moglie, il cavaliere rivela di essere un lupo mannaro; ella, dal canto suo, non prende bene la notizia e, con la complicità di un altro cavaliere, ruba al marito i vestiti che gli servono per tornare umano dopo la luna piena, costringendolo quindi a mantenere la forma lupesca. Il lupo Bisclavret dimostra però di essere buono e conquista la fiducia di re Artù riuscendo infine a tornare umano. C’è tutto l’immaginario simbolico medievale: la moglie di Bisclavret rappresenta il tradimento, non solo dei voti coniugali ma anche della fedeltà dovuta al sovrano; il re rappresenta la saggezza e la giustizia; Bisclavret invece rappresenta potenza che si scatena. Anche i luoghi rappresentano il pensiero medievale: la foresta dove si compie la mutazione è un luogo magico e onirico, misterioso ma selvaggio, il giusto ambiente per la forza elementare dell’uomo-lupo contrapposto al palazzo del re, simbolo di ordine e legge. La cosa che colpisce è che Maria di Francia non la definisce come una maledizione, piuttosto come una malattia, stessa identica definizione che davano i Romani e lo stesso Galeno (129/131-199/216).
5. I CINOCEFALI
L’origine del mito dei Cinocefali (dal greco antico κυνοκἐφαλος, vale a dire “testa di cane”) è incerta. Si tratta di creature presenti nelle narrazioni di ogni epoca, cultura e latitudine: dall’Età classica al Medioevo, dalla Tunisia alla Siberia passando per l’Etiopia e l’India. Essi rientrano tra i “popoli mostruosi” che si incontrano nella mitologia greco-latina, come i Ciclopi, i Blemmi, gli Sciapodi, ma nell’immaginario medievale sono collocati nell’estremo Oriente del mondo allora conosciuto.
Questa razza straordinaria è così descritta nel “Liber Monstrorum”, un compendio di creature meravigliose del VII secolo: «E si dice che ancora in India nascano i cinocefali, che hanno teste di cane e corrompono ogni parola che dicono pronunciandola fra latrati; e mangiando carne cruda più che agli uomini sono simili alle bestie». I cinocefali erano raffigurati come esseri dalla statura imponente e dal corpo di uomo e la testa di cane. In Oriente, erano rappresentati armati di tutto punto con in mano una lancia e una croce ortodossa.
A descrivere gli incontri con questo popolo bizzarro sono stati sia Marco Polo (1254-1324) sia Cristoforo Colombo (1451-1506). Scrisse il primo: «Dovete sapere che gli abitanti di quest’isola hanno tutti la testa canina; hanno gli occhi ed i denti da cane». È quindi una concezione del mostruoso come prodigio contro natura, con significati simbolici, religiosi, astrologici e superstiziosi.
I cinocefali, poi, compaiono anche nella Bibbia, e sono descritti come soldati iafetici (da Iafet, uno dei figli di Noè), unitisi ai selvaggi Gog e Magog, tradizionali nemici di Cristo, che finirono inceneriti da Dio.
7. SAN CRISTOFORO CINOCEFALO
Una delle figure più emblematiche della storia della Cristianità è san Cristoforo “cinocefalo” al (†249-251), martire del III Sec.: era un guerriero appartenente a una rozza tribù di antropofagi. Si chiamava Reprobo e l’aspetto «dalla testa di cane» emergeva già nel testo più antico, ossia gli Acta di san Cristoforo, in lingua latina, che risale al VI Secolo, ma è con la “Legenda Aurea” di Jacopo di Varrazze (1230-1298) che la sua storia divenne famosa. Il nome è del Santo è molto significativo: Cristoforo infatti significa, in greco, “(colui che) porta Cristo”.
È raffigurato in moltissime icone e affreschi bizantini con le fattezze di cinocefalo. Nella “Passio sancti Christophori martyris”, un testo presente in varie opere di patristica che ebbe ampia diffusione in epoca medioevale, è narrata la leggenda del santo, che sarebbe proprio un Cinocefalo convertitosi al cristianesimo.
La “testa di cane” potrebbe essere un riferimento al ruolo esercitato nell’esercito romano, ovvero quello di Vessilifero o addirittura Immaginifer: sappiamo che questi ruoli, dovendo rispettivamente portare l’insegna della legione o addirittura il volto dell’imperatore, erano scelti fra i più robusti e avevano, sicuramente nel caso del Vessilifero, una pelle di lupo sul capo. Dunque la leggenda potrebbe essere collegata a questo aspetto, per quanto attiene alla statura e alla testa canina. Un’altra ipotesi, più intrigante, sostiene che fosse un giovane molto corteggiato dalle donne per la sua avvenenza e che si fosse rivolto a Dio per frenare quelle insopportabili approcci. Per tutta risposta l’Altissimo gli trasformò la graziosa testa in quella di un cane; chiaramente tutte le spasimanti si dileguarono.
Un’ipotesi diversa vuole il santo originario di Kinos Kefali, nella regione greca della Tessaglia, e dal nome del villaggio, nel corso dei secoli a venire, si sarebbe tramandata, tra trascrizioni errate e fraintendimenti di ogni sorta, l’idea che Cristoforo fosse un cinocefalo. Un’altra ipotesi è che le divinità egizie fossero talmente dure a morire che passarono tranquillamente anche in Occidente. L’ipotesi più plausibile è però quella che san Cristoforo fosse semplicemente originario della Cananea (“cananeus” in latino, molto vicino al termine “canineus” che significa canide) – una regione tra il fiume Eufrate e il mar Mediterraneo – e che, per lo stesso principio di cui sopra, sarebbe approdato al Medioevo con la bizzarria della testa di un cane.
8. LE FONTI
Leslie A. Sconduto (n. 1950), “Metamorphoses of the Werewolf: A Literary Study from Antiquity through the reinassance”, Jefferson, N.C, Mcfarland & Co inc Pub (2008)
Carlo Donà (n. 1959), “La malinconia del mannaro, Quaderni di studi indo-mediterranei III” (2010)
Gianna Chiesa Isnardi (1949-2016), “I miti nordici” (1991)
Olao Magno (1490-1557), “Historia de Gentibus Septentrionalibus”
Jacopo di Varrazze (1230-1298), “Legenda Aurea”